“Sta vincendo il marketing sulla tecnologia, un marketing vuoto di contenuti”
Eni è una delle maggiori aziende energetiche integrate al mondo e opera nei settori dell’esplorazione e della produzione di gas e petrolio, del trasporto internazionale e della vendita del gas, della generazione di energia, della raffinazione e della vendita di prodotti petroliferi, della chimica e dell’ingegneria e costruzione.
Eni è presente in novanta paesi con circa 78.000 dipendenti, l’anno scorso ha avuto un profitto di circa 20 miliardi di euro, pagando ricchi dividendi agli azionisti poco meno di 4 miliardi di euro.
Qual è l’importanza dei Sistemi Informativi? Ne abbiamo parlato con Gianluigi Castelli – CIO di Eni che è stato recentemente eletto “CIO of the Year” per l’area EMEA agli Oracle Excellence Awards 2013, l’iniziativa che premia i partner di Oracle che in tutto il mondo hanno mostrato di eccellere nel generare valore per il business attraverso le tecnologie.
Con questa complessità e con la presenza capillare in novanta Paesi come si devono organizzare i Sistemi Informativi?
L’azienda era strutturata in tre macrodivisioni (ora siamo in fase di cambiamento); una divisione che si occupa di esplorazione e produzione quindi ricerca e sfruttamento di giacimenti di energia, una divisione che si occupa di raffinazione e vendita di derivati petroliferi, poi avevamo la divisione Gas & Power che si occupava di vendere gas ed energia elettrica sul mercato retail e ai grandi clienti che ora è stata divisa in due unità quella che opera sul mercato retail è quella che chiamiamo downstream mentre l’area dei grandi clienti è confluita nell’unità midstream. Poi abbiamo un’azienda controllata al 100% che si occupa di petrolchimica la Versalis.
La nostra Direzione IT è molto centralizzata ed ha poi una forte presenza territoriale che assume forme molto differenti in virtù del nostro modo di essere presenti in vari paesi; abbiamo delle consociate al 100% che sono oggetto di una forte centralizzazione, poi ci sono i consorzi dove siamo main contractor (ad esempio in Kazakistan) e poi abbiamo partecipazioni minoritarie.
Il nostro modello di governance vede diversi livelli di accentramento, da quelli forti a quelli con schemi molto leggeri che si riflettono nell’applicazione di contratti globali fatti a livello centrale ma lasciando ampio spazio alle strutture locali. La struttura centrale impiega circa 750 persone mentre in giro per il mondo abbiamo altre 300 risorse. In termini d’investimenti e di spesa siamo intorno ai 600 milioni di euro all’anno centrali e circa 250 sull’estero.
Probabilmente in Italia nessuno ha la stessa capacità d’investimento?
In realtà non è vero, non sono informato delle evoluzioni delle grandi banche (Unicredit e Intesa) però sia in termini di forza lavoro sia in termini di budget almeno fino ad un paio di anni fa erano più grosse di noi. Certamente però vista la nostra organizzazione e le nostre quattro linee di business possiamo affermare che sono 4 mestieri completamente differenti e questo significa avere sia un’organizzazione, sia un’architettura, sia competenze differenti ed estremamente diversificate quindi probabilmente la nostra complessità è superiore ad esempio a quelle delle grandi banche.
Che rapporto c’è con l’outsourcing?
In Italia nella struttura centrale soprattutto nell’area sviluppo applicativo abbiamo circa un rapporto uno a tre in termini di FTE tra interni ed esterni. Si tratta quindi di un ricorso importante a capacità di sviluppo esterno. Recentemente abbiamo preso delle decisioni controcorrente; per esempio sulla parte di operations inerente la gestione della nostra infrastruttura siamo passati da un contratto vecchio di 15 anni di full outsourcing ad un insourcing selettivo perché riteniamo che sia dal punto di vista economico sia della qualità del servizio sia meglio così.
Passando alle risorse fisiche come siete organizzati? Quanti Data Center avete?
Dal primo gennaio concentreremo nel nuovo Data center che è stato inaugurato il 29 ottobre a Pavia tutti i server di servizio e tutti i server dedicati all’High Performance Computing che utilizziamo per le simulazioni sismiche, la stima ed il dimensionamento dei giacimenti. Poi avremo un data center di disaster recovery che per ora sarà il vecchio data center attualmente primario che è in outsourcing con HP da 15 anni.
Quali sono stati i principali progetti realizzati e quelli futuri?
I progetti più importanti realizzati sono stati quelli che avevano come focus l’esigenza di consolidamento (fino a sette anni fa Eni era un arcipelago di aziende mentre con l’avvento di Scaroni è iniziata una forte azione di consolidamento, risultata in una vera corporation). Abbiamo consolidato tutte le applicazioni consolidabili e nel fare ciò le abbiamo anche rinnovate da un punto di vista tecnologico e dell’infrastruttura su cui si appoggiano. In particolare abbiamo consolidato i sistemi amministrativi (avevamo ventuno sistemi SAP diversi sparsi per l’Italia ora ne abbiamo uno solo, stessa cosa sui sistemi di approvvigionamento di ogni società (da 19 a uno)), abbiamo rinnovato i sistemi di billing e del CRM del mondo gas & power.
Abbiamo poi in corso la realizzazione di un grandissimo sistema di gestione del personale unico per tutto il mondo, con un investimento superiore ai 10 milioni di euro.
Il progetto più importante che ora è in fase di conclusione è stato l’IT Transformation; il percorso di cambiamento nasce con il nuovo dato center, poi però ci siamo detti che facciamo? Solo un trasloco di macchine?
Pertanto abbiamo deciso di introdurre una nuova infrastruttura totalmente standardizzata basta su sistemi blade, realizzando, di fatto, una reale Infrastrutcure as Service e una Platform as Service, realizzando, di fatto, anche se il termine è abusato, il più grande cloud privato certamente in Italia e uno dei più grandi nel mondo.
Avevamo 575 applicazioni eterogenee dopo una razionalizzazione le abbiamo ridotte a 403 e le abbiamo migrate tutte sulla nuova infrastruttura.
Quale sarà lo scenario IT sia dal punto di vista tecnologico sia organizzativo?
Non mi piace fare ricorso alle parole magiche: mobility, big data, …. Non mi piacciono perché credo che l’hype che è generato attorno a queste presunte novità in realtà confonda le aziende che non hanno il tempo di portare a maturazione i concetti buoni che ci sono dietro questi slogan.
Così facendo si genera un fenomeno acritico di me too invece di quel pensiero forte che pure esisteva nel passato e di cui avremmo maledettamente bisogno. Una volta c’era il modo IBM o il modo Digital di fare informatica, si potevano amare o odiare, ma era un pensiero forte che implicava scelte strategiche architetturali e operative molto ben definite, oggi invece è un gran mischione dove tutti fanno tutto, chi meglio, chi peggio, ma manca una chiara direzione strategica da parte dei vendor e c’è un rischio di uniformità; si rischia di comprare solo in base al brand ed al prezzo e non per reali contenuti. Sta vincendo il marketing sulla tecnologia, un marketing spesso vuoto di contenuti. Anche se vedo qualche segnale di miglioramento.
La tecnologia hardware negli ultimi anni ha migliorato molto le prestazioni in termini di CPU, fenomeno chiaramente guidato dal mercato consumer. Ad esempio per i nostri tre petaflops che servono le simulazioni sismiche, utilizziamo architetture che nascono in ambito games GPU (Graphical Process Unit). L’investimento necessario per sviluppare processori con quella capacità si giustifica solo in casi di volumi alti. Sulla tecnologia software direi che abbiamo consolidato tutto dal punto di vista dei sistemi operativi mentre osservo invece una perdita di cultura e di competenza sui temi legati all’ingegneria del software e sui linguaggi di programmazione. I linguaggi prevalenti in uso per fare siti (perl, xml etc) rappresentano un forte regresso rispetto ai linguaggi di programmazione strutturati della fine degli anni 90 che avevano raggiunto il culmine robustezza ingegneristica. L’ingegneria del software sembra essere una disciplina quasi caduta in disuso: avrei molto da ridire sulla manutenibilità e le performance di molto del software che viene scritto oggi in assenza di una seria disciplina di programmazione.
Siamo nella fase Plug&Play in cui si trovano in Rete software che poi si prova a integrare nelle aziende.
Sì ma occorre sapere bene quel che si fa, altrimenti è un disastro. Per carità va benissimo usare software public domain però poi va inserito in un contesto ingegneristico che non crei problemi, senza perdere il controllo. Le società di servizi operanti nel settore del software devono migliorare la capacità di fare del software di qualità.
I Social Media possono essere utilizzati in azienda?
Questo è un fenomeno che noi abbiamo già cavalcato perché abbiamo uno strumento social che si chiama Moka che è nato per facilitare il reperimento e la condivisione di competenze all’interno della struttura ICT e che poi è stato esteso a tutta l’azienda diventando, di fatto, il social network di tutta Eni. Abbiamo una serie di stanze tematiche moderate dalla comunicazione interna che ha la finalità di distruggere quelle barriere organizzative che talvolta limitano la nostra efficacia.
Il ruolo del CIO si è evoluto molto negli ultimi anni, cosa dobbiamo aspettarci per il futuro?
La nostra professione è presa in mezzo tra un’evoluzione continua delle tecnologie e delle soluzioni che non è governata dal CIO stesso e da linee di business che oramai anche in aziende che operano in mercati tradizionali come la nostra considerano l’IT una leva che va oltre il fare efficienza. È un mestiere in continuo cambiamento, il mondo cambia e quindi il ruolo cambia però i fondamentali per fare bene il nostro mestiere sono sempre i soliti in primis bisogna soddisfare il bisogno di efficienza che tutte le aziende sempre e comunque avranno; prima efficienza interna dell’it e poi un aiuto a efficientare le linee di business perché solo così attraverso il rispetto di obiettivi precisi di costi e di tempi si costruisce la credibilità che poi consente di ottenere le risorse per innovare.
Il CIO deve contare su un team di persone di esperienza molto diversa che devono essere ossessivamente ricercate tra le eccellenze, io non riesco a immaginare un team a riporto del CIO di gente che si siede, voglio dietro di me dieci risorse che possano occupare il mio posto domani così da avere la motivazione di correre in avanti più velocemente e cosi facendo trascinare tutta la capacità d’innovazione che abbiamo. Il CIO deve essere un osservatore dei fenomeni che accadono attorno per guidare il cambiamento invece che subirlo passivamente.
L’Italia secondo Lei avrebbe bisogno di un CIO?
Certamente sì, in qualche misura l’ha, anche se un po’ è una poltrona per due in questo momento con Ragosa e Caio. Il problema vero però non è il CIO ma la struttura della nomenclatura esistente che frena il cambiamento. Se il CIO del Paese deve solo emanare delle norme, non serve a nulla e non si va molto lontani, è evidente che è necessaria una capacità operativa che è molto vincolata oggi. Manca poi una visione strategica tutti parlano di Banda Larga ma poi dopo cosa ci facciamo? Che servizi erogo?
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Nato nel 1954, Gianluigi Castelli oggi è CIO di Eni.
Laureato in Fisica a indirizzo cibernetico, dopo gli studi svolge attività accademiche presso il Dipartimento di Scienze dell’Informazione ldell’Università di Milano, per poi entrare in Etnoteam, dove resta 18 anni con diversi incarichi fino ad occupare la posizione di responsabile della Divisione di System Integration.
Successivamente passa in Infostrada dove ricopre il ruolo di CIO e poi in Fiat dove nel periodo 1997–2001 opera come CIO di Fiat Auto e come CEO di Fiat GSA, la società di servizi software del Gruppo.
Approda poi al ruolo di CIO e di CTO di Vodafone Italia, azienda la cui strategia è focalizzata sull’innovazione dei prodotti e servizi e di cui l’ICT è parte integrante. Nel 2003 assume la carica di CIO del Gruppo Vodafone, con la responsabilità del coordinamento e del consolidamento informatico a livello mondo. Nel 2006 entra in Eni con il ruolo di CIO, sua attuale posizione.