Rendimenti elevati, decorrelazione, vantaggi fiscali e supporto all’economia reale
A cura dell’ufficio studi di P101
Alla ricerca di alpha, la strada porta al venture capital. Particolarmente adatta a fondi pensione e istituzionali, l’economia delle imprese che crescono può essere un booster del rendimento di portafoglio anche di private banker e family office, purché l’ottica sia quelli di medio termine, non meno di 3/5 anni per vedere i primi ritorni. Ne beneficia il portafoglio e, in potenza, anche l’economia reale e la sua competitività, dato l’alto carattere impacting di questo genere di investimento. Senza considerare che con Aifmd, la direttiva europea in tema di investimenti alternativi, si va nella direzione di un’apertura anche al retail. In Italia non esistono al momento prodotti adatti al piccolo investitore, nel mondo anglosassone c’è invece qualche esperimento di investimenti per il pubblico indistinto con sottostante il private equity. Ma la strada è segnata: l’embrionale mercato italiano rappresenta una grande opportunità ancora da cogliere, e il valore della trasformazione digitale e industriale in atto può essere colto proprio intercettando quelle società artefici dell’innovazione e oggetto dell’investimento dei fondi di venture capital.
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“I ritorni – dice Andrea Di Camillo, managing partner di P101 – verranno sempre più dalla creazione di valore in ottica di lungo termine anziché dall’arbitraggio di breve periodo sui mercati più liquidi.” Il venture capital ha nel suo core business la creazione di valore d’impresa e come conseguenza la creazione di valore finanziario, non il contrario. In quale modo? Proviamo a spiegarlo, partendo da una definizione tecnica che è quella fornita dall’Aifi: innanzitutto apportando “capitale azionario o sottoscrizione di titoli convertibili in azioni nei confronti di imprese non quotate e con elevato potenziale di sviluppo in termini di nuovi prodotti o servizi, tecnologie, concezioni di mercato.” La partecipazione è temporanea e minoritaria e tesa, appunto, ad accrescere ed accelerare la creazione di valore dell’impresa per realizzare un elevato capital gain in sede di dismissione. Il fondo investe soldi dei sui investitori, i cosiddetti limited partner in quote di aziende in fase iniziale e con prospettive di grande crescita, e si affianca a queste aziende in un’ottica di partnership, mettendo a disposizione dei nuovi imprenditori non solo le risorse finanziarie, ma anche il bagaglio di conoscenze e know-how, proprio e del network di esperti di cui spesso si avvale, e aiutandoli a definire le strategie di crescita.
Quanto rende investire in startup? Il fondo di Venture Capital è uno strumento a rischio elevato con un rendimento potenziale, quindi altrettanto importante, che può superare il 20% annuo. Una regola aurea del venture capitalist è la power law: in sostanza, in un paniere di società su cui investire ce ne deve essere una – o un gruppo – il cui rendimento atteso sia superiore a quello di tutte le altre. Per intenderci, la Uber o la Facebook di turno o, per fare un esempio italiano, Yoox (che oggi, dopo la fusione con il gruppo francese Net-a-porter, ha una capitalizzazione di Borsa di 2,5 miliardi di euro).
Certo, il 20% di cui parliamo non è ecumenico, ma è una buona approssimazione dal momento che non esiste una banca dati, neppure internazionale, di rendimenti realizzati. A fare un esercizio utile allo scopo sono stati di recente i pionieri Reshma Sohoni e Carlos Eduardo Espinal, anime di Seedcamp, che ha investito 500 milioni in 230 startup. Il loro primo fondo, Fund 1, lanciato nel 2007 e dedicato a investimenti fino a 200mila euro, aveva un’ampiezza di 3 milioni usati per finanziarie 22 startup. A ottobre 2016, grazie alle exit, tra cui l’unicorno Superflix che ha reso 60 volte sull’investimento, il ritorno generato è stato di 1 una volta e mezza, ma arriverà a circa 10 volte considerando anche le altre società ancora da valorizzare.
Un numero più puntuale – ma sempre vicino a quel 20% di cui sopra – lo fornisce Preqin, secondo cui nel mondo i fondi di venture capital nel 2015 hanno investito per 136 miliardi di dollari, spalmati su 9241 operazioni e a fronte di disinvestimenti per 73 miliardi, con ben 47 miliardi di nuovi capitali raccolti e un Irr a un anno del 20,5%. Sempre Preqin ha calcolato che nel 2015 il venture capital ha realizzato la migliore performance rispetto a tutte le altre strategie di private equity, registrando un Irr al netto delle commissioni del 18,2% contro il 18,1% dei fondi di buyout. Ancora, secondo le rilevazioni di Aifi e Kpmg Corporate Finance pubblicate a inizio luglio, l’IRR lordo delle operazioni concluse nel 2016 è stato pari al 14,5%, dato in leggero calo rispetto all’anno precedente (17,8%), ma comunque positivo e in linea con i buoni rendimenti registrati negli ultimi anni.
“I fondi di venture capital – spiega Di Camillo – sono strutturati in maniera da abbattere il rischio di portafoglio: con P101 vediamo migliaia di società all’anno e scegliamo le migliori, l’investitore informale, che agisce in modo destrutturato e/o non continuativo, non ha questi termini di confronto. Co-investendo si riesce a sfruttare la selezione di un investitore professionale e nel contempo a entrare, in parte, direttamente nell’azienda sovvenzionata. E, nel caso la società abbia bisogno di altro capitale, ha già un azionista nella figura del venture capital, che potrà fare fronte alle future esigenze o comunque avere migliore accesso alla community degli altri investitori attivi sul mercato in quel momento.”
I vantaggi sono diversi, a partire da quello fiscale: dal 2017 è possibile detrarre il 30% degli investimenti fino a un milione di euro dal reddito imponibile, rispetto al 19% della normativa varata nel 2013. Non va trascurato, inoltre, il fatto che si tratta di un investimento totalmente decorrelato dai mercati tradizionali in un mondo in cui la decorrelazione tra asset class tradizionali non esiste più.
Negli Usa il valore delle venture capital-backed company ammonta a circa il 20% della capitalizzazione totale di Borsa. Lo afferma un’analisi della Stanford Graduate School of Business che però precisa che se invece lo sguardo si sposta alle aziende fondate a partire dal 1979 – anno in cui il VC di fatto è nato – la situazione cambia in maniera drastica: delle 1330 realtà, oggetto di questa seconda osservazione, ben 574, ovvero il 57%, in termini di capitalizzazione sono venture capital-backed. Queste imprese investono inoltre in ricerca in sviluppo l’82% del totale, il che spiega anche la loro natura di innovatori capaci di trasformare interi settori industriali. In Italia il valore delle imprese vc-backed sfiora il 2%: ed è ovvio che, fatte le debite proporzioni, lo spazio di crescita è enorme.
Gli ultimi numeri diffusi da Aifi aiutano a dare una dimensione all’evoluzione del fenomeno: nel 2016 il mercato del private equity e del venture capital ha segnato un record a 8,2 miliardi di euro (+77%). Gli operatori esteri sono tornati in gran spolvero, con un investimento pari al 69% in termini di ammontare. Le operazioni sono diminuite a 322 da 342, e le prime 17 costituiscono il 74% del valore. L’ammontare disinvestito al costo di acquisto delle partecipazioni è stato pari a 3,6 miliardi di euro, in crescita del 26% rispetto ai 2,9 dell’anno precedente. Ma, guardando appena un po’ più in dettaglio i numeri di Aifi, si scorge che ben 5,7 miliardi di quel totale da record è fatto da operazioni di buyout e l’early stage rappresenta una fettina di appena di 104 milioni. Allora la buona notizia rimane troncata a metà: anche da questo lato dell’Atlantico, le imprese finiscono sempre di più sotto il radar di questi finanziatori alternativi. Ma le nuove idee fanno ancora molta fatica a trovare capitalisti di ventura.
P101 – Insightful Venture Capital
P101 è un fondo di venture capital specializzato in investimenti in società digital e technology driven. Nato nel 2013, con una dotazione corrente di quasi 70 milioni di euro e 26 società in portafoglio, P101 si distingue per la capacità di mettere a disposizione degli imprenditori di nuova generazione, oltre a risorse economiche, anche competenze e servizi necessari a dare impulso alla crescita delle aziende. Il fondo, promosso da Andrea Di Camillo – 15 anni di esperienza nel venture capital e tra i fondatori di Banzai e Vitaminic – e partecipato da Azimut, Fondo Italiano di Investimento e European Investment Fund, collabora con i maggiori acceleratori privati, tra cui HFarm, Nana Bianca, Boox e Club Italia Investimenti. Tra le partecipate: ContactLab, Cortilia, Tannico, Musement e MusixMatch. Le società partecipate da P101 occupano oggi complessivamente oltre 500 risorse e generano un fatturato in costante crescita e già oggi superiore agli 80M annui. P101 prende il nome dal primo personal computer prodotto da Olivetti, negli anni ’60, esempio di innovazione italiana che ha lasciato il segno nella storia della tecnologia digitale.
Akamai pubblica il Rapporto sulla Sicurezza Q2 2017
Il report evidenzia la ricomparsa del malware PBot, l’impiego di algoritmi di generazione dei domini e il rapporto tra infrastruttura command and control di MIRAI e obiettivi di attacco. Sono inoltre contenuti dati salienti sulle statistiche relative agli attacchi DDoS e alle applicazioni web
Per scaricare il Rapporto sullo stato di Internet Q2 2017 / Security: http://akamai.me/2i9vrdz
Per scaricare i singoli grafici e diagrammi con le relative didascalie: http://akamai.me/2w6mI1v
Secondo quanto emerge dal Rapporto sullo stato di Internet Q2 2017 / Security rilasciato da Akamai Technologies, Inc. (NASDAQ: AKAM) sono nuovamente in crescita gli attacchi DDoS (Distributed Denial of Service) e alle applicazioni web. Un importante contributo a questa nuova ondata di attacchi è dato dalla ricomparsa del malware DDoS PBot, utilizzato per lanciare gli attacchi DDoS più imponenti registrati da Akamai nel corso di questo trimestre.
Nel caso del malware PBot, utenti malintenzionati hanno utilizzato codice PHP che risale ad alcuni decenni fa per generare l’attacco DDoS più ampio osservato da Akamai nel secondo trimestre. Gli autori degli attacchi sono riusciti a creare una mini botnet DDoS in grado di lanciare un attacco DDoS da 75 gigabit al secondo (Gbps). È interessante notare che la botnet PBot era composta da un numero relativamente contenuto di nodi, circa 400, in grado tuttavia di generare un notevole livello di traffico di attacco.
Un altro elemento preso dal passato, rilevato dall’analisi svolta dal team Threat Research di Akamai, è l’impiego di algoritmi di generazione di domini (Domain Generation Algorithms) nell’infrastruttura dei malware Command and Control (C2). Utilizzato per la prima volta assieme al worm Conficker nel 2008, il DGA rimane una tecnica di comunicazione frequentemente utilizzata anche per i malware attuali. Il team di ricerca delle minacce di Akamai ha scoperto che le reti infette hanno generato un tasso di ricerche DNS 15 volte superiore rispetto a quelle non infette. Ciò può essere spiegato come conseguenza del fatto che il malware presente nelle reti infette accede a domini generati casualmente. Poiché la maggior parte dei domini generati non era registrata, tentare di accedere a tutti avrebbe generato troppo rumore. Analizzare le differenze di comportamento tra le reti infette rispetto a quelle non infette è un ottimo modo per identificare l’attività del malware.
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Quando lo scorso settembre è stata scoperta la botnet Mirai, Akamai è subito diventata uno dei suoi primi obiettivi. Da allora, la piattaforma dell’azienda ha continuato a essere presa di mira e a respingere efficacemente attacchi provenienti dalla botnet Mirai. I ricercatori di Akamai hanno utilizzato la visibilità sulla botnet Mirai che solo Akamai può vantare per studiare i diversi aspetti della botnet. In particolare nel secondo trimestre tale analisi si è concentrata sull’infrastruttura C2 di Mirai. Le ricerche condotte da Akamai indicano chiaramente che Mirai, come molte altre botnet, sta contribuendo alla massificazione degli attacchi DDoS. Si è osservato che sebbene molti dei nodi C2 della botnet abbiano condotto “attacchi dedicati” contro IP selezionati, sono stati ben più numerosi i nodi che hanno partecipato a quelli che potremmo considerare attacchi di tipo “pay-for-play”. In queste situazioni, i nodi C2 della botnet Mirai hanno attaccato degli indirizzi IP per brevi periodi, divenendo poi inattivi per riemergere in seguito e attaccare obiettivi diversi.
“Gli autori degli attacchi testano continuamente i punti deboli nelle difese delle aziende e investono maggiore energia e risorse sulle vulnerabilità che risultano più diffuse ed efficace”, spiega Martin McKeay, Senior Security Advocate di Akamai. “Eventi come la botnet Mirai, l’exploit utilizzato da WannaCry e Petya, l’aumento continuo degli attacchi SQLi e la ricomparsa del malware PBot testimoniano che gli autori degli attacchi non escogiteranno solo nuovi strumenti e strategie, ma torneranno a riutilizzare anche strumenti già visti in passato che si sono dimostrati particolarmente efficaci”.
Alcuni dati:
Altri dati di rilievo presenti nel rapporto sono:
● Il numero di attacchi DDoS del secondo trimestre è cresciuto del 28% su base trimestrale dopo avere registrato un calo per tre trimestri consecutivi.
● Gli autori degli attacchi DDoS si stanno dimostrando più ostinati che mai, attaccando i propri obiettivi con una media di 32 volte nel corso del trimestre. Una società di gaming è stata attaccata 558 volte, ossia con una media di sei volte al giorno.
● Il maggior numero di indirizzi IP univoci utilizzati in attacchi DDoS frequenti ha avuto origine in Egitto, con una percentuale del 32% sul totale generale. Il trimestre scorso erano gli Stati Uniti a detenere il primato, mentre l’Egitto non rientrava nella top five.
● Questo trimestre sono stati utilizzati meno dispositivi per lanciare attacchi DDoS. Il numero di indirizzi IP coinvolti in attacchi DDoS volumetrici è crollato del 98% passando da 595.000 a 11.000.
● L’incidenza degli attacchi alle applicazioni web è aumentata del 5% su base trimestrale e del 28% su base annuale.
● Gli attacchi SQLi sono stati utilizzati in più della metà (51%) degli attacchi alle applicazioni web questo trimestre, rispetto al 44% del trimestre scorso, generando quasi 185 milioni di avvisi solo nel secondo trimestre.
Metodologia
Il Rapporto sullo stato di Internet Q2 2017 / Security di Akamai combina i dati sugli attacchi raccolti dall’intera infrastruttura globale di Akamai ed è frutto delle ricerche svolte dai vari team dell’azienda. Il rapporto si avvale dei dati raccolti dalla Akamai Intelligent Platform e fornisce un’analisi dell’attuale panorama delle minacce e della sicurezza sul cloud, nonché informazioni sulle tendenze degli attacchi. Il Rapporto sullo stato di Internet / Security è frutto della collaborazione di vari professionisti della sicurezza di Akamai, tra cui il team SIRT (Security Intelligence Response Team), l’unità Threat Research, i team Information Security e Custom Analytics.
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Informazioni su Akamai
Grazie alla propria piattaforma cloud di delivery più estesa e affidabile al mondo, Akamai supporta i clienti nell’offerta di experience digitali migliori e più sicure da qualsiasi dispositivo, luogo e momento. Con oltre 200.000 server in 130 paesi, la piattaforma Akamai garantisce protezione dalle minacce informatiche e performance di altissimo livello. Il portfolio Akamai di soluzioni per le web e mobile performance, la sicurezza sul cloud, l’accesso remoto alle applicazioni aziendali e la delivery di contenuti video è affiancato da un servizio clienti affidabile e da un monitoraggio 24×7. Per scoprire perché i principali istituti finanziari, i maggiori operatori e-commerce, provider del settore Media & Entertainment ed enti governativi si affidano ad Akamai, visitate il sito https://www.akamai.com/it/it/ o https://blogs.akamai.com/it/ e seguite @AkamaiItalia su Twitter.
Vulnerabilità di Instagram sfruttata per rubare credenziali agli utenti
I ricercatori di Kaspersky Lab hanno fornito i dettagli tecnici relativi alla vulnerabilità di Instagram sfruttata dai criminali informatici per rubare informazioni sensibili agli account.
Secondo quanto riportato ieri da Instagram, i criminali hanno sfruttato un bug all’interno del social network che gli ha permesso di rubare le credenziali degli utenti Instagram, tra cui anche quelle di alcune celebrità. I ricercatori di Kaspersky Lab che hanno rilevato il bug lo hanno notificato a Instagram martedì 29 agosto condividendo con il social network anche una breve analisi tecnica.
I ricercatori hanno scoperto che la vulnerabilità esiste nella versione 8.5.1 per mobile di Instagram, rilasciata nel 2016 (la versione corrente è 12.0.0). Il processo di attacco è relativamente semplice: utilizzando la versione non aggiornata dell’applicazione i criminali selezionano l’opzione di ripristino della password e registrano la richiesta utilizzando un proxy web. Quindi selezionano una vittima e inviano una richiesta al server di Instagram tramettendo l’identificativo della vittima o il suo nome utente. Il server restituisce una risposta in JSON con le informazioni personali della vittima, compresi i dati sensibili come l’indirizzo e-mail e il numero di telefono.
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Gli attacchi sono piuttosto impegnativi: ciascuno di essi deve essere fatto manualmente in quanto Instagram utilizza calcoli matematici per impedire ai criminali di automatizzare il modulo di richiesta.
Gli hacker sono stati individuati in un forum underground mentre negoziavano le credenziali private degli account appartenenti ad alcune celebrità.
Kaspersky Lab consiglia agli utenti di aggiornare il prima possibile le versioni precedenti del software con l’ultima versione disponibile. Un altro consiglio utile da seguire quando si utilizzano i social media è quello di usare diversi indirizzi di posta elettronica per le diverse piattaforme social segnalando eventuali preoccupazioni o irregolarità al social network, soprattutto quando si ricevono messaggi di posta elettronica relativi a un ripristino di password non richiesto personalmente.
Smartphone in Italia: Android primo sistema operativo (73,5%), tra i brand Huawei (+413% dal 2015) sfida Samsung e Apple, boom dei grandi display e delle fotocamere HD | dati comScore
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Amazon e 18app: Sardegna, Basilicata e Abruzzo le regioni in cui sono stati utilizzati più buoni
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Embark on a photo safari in Royal Burgers’ Zoo’s 360-degree video game
Destination marketing: Burgers’ Zoo is using an interactive, 360-degree photo safari video game to increase content awareness among youth
Royal Burgers’ Zoo has designed its own 360-degree photo safari video game: Burgers’ Zoo Snapshot. Players are tasked with taking the best animal photos at the zoo in Arnhem for a photo exhibition. You will step into a 360-degree digital environment as a photographer in search of extraordinary moments to photograph. The game is intended to interactively increase familiarity with the park’s content among youth. The Arnhem zoo itself is very well known, but improvements can still be made with regard to content awareness. Using the educational and playful medium, children can become better acquainted with the animal kingdom and try out Burgers’ Zoo from home or even from the back seat of the car.
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360-degree experience in modern zoos
Many consumers still harbour the old image of zoos, in which visitors walk past animal enclosures, looking in from the outside in a relatively passive role. Burgers’ Zoo’s modern eco-displays stimulate all the senses in an offline, 360-degree experience, in which visitors can imagine actually swimming among the fish at the bottom of the sea in the Indo-Pacific region, or trekking through the humid jungles of Africa and Indonesia.
How the game works
The game consists of various levels, each of which represents one of our eco-displays (such as the tropical rainforest in the Bush, the rocky desert in the Desert, the East-African savannah in the Safari, or the tropical coral reef in the Ocean). In each ecosystem, players are given a variety of assignments to take specific pictures of animals. In a 360-degree digital environment, you must set out to find the right photo opportunity. Find the black tip shark in the Ocean, seek out the gorilla in the Park, or look for the aardvark in the Bush. Some things must be discovered, while others are simply a matter of the right timing. Successfully completing assignments wins you fun info cards and unlocks new levels, meaning the next eco-display.
The underlying philosophy
“Direct contact with nature is becoming increasingly rare. As a park, we play an increasingly important role in connecting people with nature. We strongly believe that, by accurately simulating ecosystems, we can enable visitors to experience animals and nature in an extremely impressive way, while educating them at the same time. Education is one of our cornerstones,” says Tim Lammers, marketing manager at Burgers’ Zoo. “At the same time, we notice every day that the park scores high in terms of brand awareness, but that our distinctive capabilities (content awareness) still have room for improvement. Content creation plays a large role in this. Burgers’ Zoo makes frequent use of photo and video material in its channels of communication, and the importance of video is growing.” The 360-degree video game provides children with a virtual introduction to the colourful habitats the Arnhem zoo has to offer. Educational elements have been playfully incorporated into the game, allowing players to learn a great deal about animals and nature. Burgers’ Zoo already engages a variety of media platforms to bring the experience to the visitors, such as 360-degree videos on its own YouTube channel, and a special app developed for Apple TV.
Put it to the test!
Does all this sound interesting? Test the 360-degree photo safari video game yourself:
Download for iPhone / iPad: https://www.burgerszoo.nl/
Download for Android: https://www.burgerszoo.nl/
The app is also available in German and Dutch.
If the free iPhone and Android app reaches enough downloads, Burgers’ Zoo will add the new Mangrove as a bonus level.
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SE L’UFFICIO DIVENTA UN MARKETPLACE. Nell’era della platform economy, gli spazi di lavoro condivisi diventano un ecosistema
COPERNICO RADAR
L’osservatorio smart di COPERNICO sul mondo del lavoro, nuove tendenze e lifestyle
Se l’ufficio diventa un marketplace
Nell’era della platform economy, gli spazi di lavoro condivisi diventano un ecosistema in cui godere di visibilità e accrescere il proprio valore
Un tempo bastava un unico termine, “economia”, per descrivere una serie di attività di produzione, consumo e scambio dal comune obiettivo di generare profitto, ottimizzando le risorse. Oggi, grazie all’avvento delle nuove tecnologie e all’evoluzione dei mercati (in altre parole alla digitalizzazione e alla globalizzazione) gli scenari sono radicalmente cambiati, tanto che possiamo parlare di marketplace economy o platform economy.
COS’È LA MARKETPLACE ECONOMY?
Nuove imprese e – soprattutto – nuovi modi di fare impresa stanno rivoluzionando i mercati tradizionali. Come? Sostanzialmente mettendo a disposizione dei consumatori una piattaforma di servizi che funziona senza intermediari. Questa modalità di approccio non è nient’altro che la marketplace economy o platform economy. Il numero di aziende che ne fanno parte è alto, ma quello che sorprende è il loro valore. Quando ci riferiamo a queste realtà pensiamo, ad esempio ai “decacorni” Airbnb e Uber: il primo vale 25 trilioni di dollari, il secondo il doppio.
La martketplace economy è l’ultimo tassello di un percorso che parte dalla on-demand economy – spesso inserita nel contesto generalizzato della sharing economy, cioè l’economia che dà all’utente l’accesso immediato al bene che sta cercando. E infine ecco la platform economy, dove gli imprenditori usano piattaforme cloud-based, app per smartphone e i social networks per svolgere la loro attività. Non ci sono beni da vendere, ma servizi altrui, aggregati in un unico luogo digitale che mette a valore la relazione con i clienti.
Spesso la platform economy è riferita a un’attività facile da mettere in piedi e fai da te, come possono dimostrare non solo i colossi citati poc’anzi, ma anche gli home restaurant, o Prontopro, un marketplace di professionisti che permette agli utenti di confrontare i preventivi per lavori di giardinaggio, fotografia e lavori di casa.
PERCHÈ UNA PLATFORM è MEGLIO DI UN MERCATO?
Secondo l’Harvard Business Review, il valore con le piattaforme sta negli ecosistemi che si vengono a creare. Con l’arrivo di questo nuovo paradigma le regole fondamentali cambiano: le strategie passano dal controllo alla gestione delle risorse, dall’ottimizzazione di processi interni alla facilitazione di interazioni esterne e, infine, dall’aumentare il valore del cliente al massimizzare il valore del nuovo ecosistema. Ecco perché, come definisce Accenture nel Technology vision 2016 gli ecosistemi sono il nuovo fondamento del mondo digitale.
I leader dell’industria stanno rilasciando potere tecnologico attraverso lo sviluppo di nuove piattaforme. Ma più di questo, è il modello di business basato sulle platform e le strategie che abilitano che stanno portando un profondo cambiamento macroeconomico globale dalla rivoluzione industriale. Nell’economia digitale, ecosistemi basati su piattaforme non sono niente meno che la creazione di nuovo valore.
Alcune delle più conosciute tech company come Amazon, Google o Alibaba hanno capito tempo fa il potere delle tecnologie digitali, ma se osserviamo più da vicino, possiamo effettivamente vedere che molti dei loro prodotti migliori e servizi sono basati su piattaforme. Ed è questo sistema che cambia radicalmente il loro modo di operare. Sempre secondo Accenture, l’81% degli executive dichiara che i modelli di business platform-based saranno il core della loro strategia di crescita per i prossimi tre anni.
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IL MARKETPLACE È UN MODELLO DI BUSINESS VINCENTE
Perchè questi modelli sono così speciali? La risposta è semplice: creano valore all’esterno attraverso partner digitali e community di utenti aprendo nuovi percorsi per la crescita. Basti pensare che le platform company rappresentano $2.6 miliardi in capitalizzazione di mercato in tutto il mondo. Entro cinque anni, si stima che un elemento centrale della valutazione societaria e del capitale di mercato sarà basato su platform ecosystems e assetti digitali.
COS’È UN MARKETPLACE?
In sostanza stiamo parlando di mercati online in cui sono raggruppate le merci di diversi venditori, i marketplace inoltre possono essere di tipo verticale o orizzontale. Verticali sono quei siti che trattano solo una categoria di prodotto. Orizzontali sono quei siti che offrono prodotti e servizi di vario tipo.
I PROTAGONISTI DEI MARKETPLACE
I marketplace si possono distinguere anche concentrandosi non solo sulla struttura sulla tipologia di prodotto venduto, ma sui protagonisti dello stesso mercato online. In questo modo possiamo distinguere tre tipologie di marketplace:
- Consumer to consumer (C2C). Sono quei siti dove al proprio interno diversi utenti privati interagiscono fra loro effettuando transazioni di tipo commerciale. Marketplace di questo tipo non riescono ad offrire determinate garanzie agli utenti, i quali si basano esclusivamente su un sistema di feedback per conoscere in anticipo l’attendibilità della controparte.
- Business to consumer (B2C). Sono quei siti dove le aziende offrono diversi prodotti alla comunità di frequentatori, questi tipi di marketplace non sono altro che grandi centri commerciali online. A differenza della categoria C2C i visitatori hanno garanzie superiori che vengono supportate da sistemi di pagamento sicuri e da certificazioni di qualità.
- Business to business (B2B). Sono quei siti che di fatto mettono in contatto aziende manifatturiere o industriali con aziende commerciali; anche in questo caso sono comunque previste transazioni in relazione a merce confezionata spesso in grandi stock.
I marketplace più diffusi al mondo sono senza alcun dubbio eBay e Amazon. Ma anche Airbnb, Uber e, perchè no, anche WeWork, la società americana che fornisce attraverso una piattaforma online spazi di lavoro, community e servizi a una ben definito target di imprenditori.
E SE IL TUO UFFICIO DIVENTASSE IL TUO MERCATO?
WeWork non è un caso isolato e anche in Italia molti player come Copernico, la piattaforma di smart working che conta più di 4.000 members e il cui obiettivo è accelerare il business delle imprese, stanno creando valore per le community che scelgono di avere un ufficio all’interno di un contesto articolato. L’obiettivo è non solo mettere a disposizione postazioni di lavoro, ma anche e soprattutto strumenti che aiutano le aziende a crescere, a restare competitive focalizzate sui propri obiettivi, a essere più flessibili. Come? Attraverso contenuti, connessioni e servizi che promuovono un nuovo concetto di lavoro, che abilita la creazione di una nuova economia, per le aziende ma anche per il contesto geografico in cui la community si inserisce.
E I BENEFICI?
Per concludere, non solo creare il proprio marketplace genera valore, anche posizionarsi all’interno di un marketplace e di un ecosistema può essere una scelta vincente perché consente di avere accesso a risorse e a una forte visibilità senza dover sostenere costi importanti di marketing o costi tecnici legati allo sviluppo informatico di una piattaforma proprietaria. I marketplace, online o offline, rappresentano un compromesso efficace per aumentare il fatturato senza dover spendere un budget smisurato.
Chi è COPERNICO
COPERNICO è la piattaforma di accelerazione e sviluppo del business: smart working e un nuovo lifestyle in cui connessioni, contenuti e community danno al lavoro il fattore esponenziale. COPERNICO gestisce spazi di lavoro innovativi in Italia ed Europa (Milano – Torino – Brussels) in cui ospita più di 600 aziende. Oltre 4.000 utenti quotidianamente utilizzano i suoi spazi come sede di lavoro e luogo preferenziale per meeting ed organizzazione di eventi.
website: torinogaribaldi.coperni.co
Innovazione – Report InfoCamere-Ministero Sviluppo Economico startup II trimestre 2017
Startup innovative oltre quota 7.000 Al 30 giugno 2017 il numero di startup innovative iscritte alla sezione speciale del Registro delle Imprese è pari a 7.394, in aumento di 514 unità rispetto alla fine di marzo (+7,5%). Le startup rappresentano lo 0,46% delle oltre 1,6 milioni di società di capitali attive in Italia (a fine marzo l’incidenza del fenomeno era pari allo 0,43%).
Per quanto riguarda la distribuzione per settori di attività, il 70,6% delle startup innovative fornisce servizi alle imprese , il 19,6% opera nei settori dell’industria in senso stretto, mentre il 4% nel commercio.
Analizzando la distribuzione geografica del fenomeno, in valore assoluto la Lombardia rimane la regione in cui è localizzato il maggior numero di startup innovative: 1.694, pari al 22,9% del totale nazionale. Seguono l’Emilia– Romagna con 808 (10,9%), il Lazio con 719 (9,7%), il Veneto con 637 (8,6%) e la Campania, prima regione del Mezzogiorno con 547 (7,4%). In coda alla classifica figurano la Basilicata con 56, il Molise con 27 e la Valle d’Aosta con 15 startup innovative.[amazon_link asins=’B06Y2DWTDV,B0166VQZC8,B00W7SS3RU,B01DPV4IJY’ template=’ProductCarousel’ store=’antoniosavare-21′ marketplace=’IT’ link_id=’94da49f6-767e-11e7-b7cd-ef86953fcf95′] Queste e altre evidenze sono contenute nell’ ultima edizione del rapporto, relativa al secondo trimestre del 2017 e pubblicata quest’oggi sul sito startup.registroimprese.itRealizzato dal Ministero dello Sviluppo Economico e da InfoCamere, la società informatica del sistema camerale, in collaborazione con UnionCamere, l’Unione italiana delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, il rapporto presenta un’ampia gamma di informazioni relative alla distribuzione geografica e settoriale delle startup innovative, al valore complessivo e medio della produzione e del capitale sociale, alla redditività e alle presenze giovanili, femminili ed estere nelle compagini sociali.
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