Contante addio: l’Italia è pronta a passare al Mobile Payment

L’Italia è pronta al balzo in avanti nel Mobile Proximity Payment, il pagamento tramite avvicinamento al POS del cellulare NFC (Near Field Communication): ben 2,5 milioni di telefoni NFC già venduti, 2 milioni di carte di pagamento contactless già emesse, piani definiti per l’attivazione di oltre 170.000 POS a fine 2013.

A partire dal primo pomeriggio, a questo link saranno disponibili i video con le demo delle soluzioni di Mobile Payment presentate

Milano, 21 febbraio 2013 – Dopo una fase iniziale di ampia diffusione degli smartphone ma di limitata disponibilità di servizi per il loro utilizzo per finalizzare gli acquisti, si sta finalmente affermando in Italia l’utilizzo del Mobile Payment. È quanto emerge dalla fotografia scattata dall’Osservatorio NFC & Mobile Payment del Politecnico di Milano*. I dati della ricerca, presentata a Milano presso il Campus Bovisa in occasione del Convegno “Mobile Payment, l’Italia s’è desta!”, mostrano un mercato in forte crescita che prosegue il trend molto positivo già delineato nel 2011.

Alla base della diffusione del Mobile Payment in Italia ci sono tre fattori chiave: lacrescita del 20% dei servizi che consentono di completare gli acquisti online attraverso il telefono cellulare, come il pagamento dei bollettini postali e del canone Rai ma anche dei parcheggi e delle corse degli autobus; la disponibilità della tecnologia che permette di usufruire di questi servizi trasformando il proprio cellulare in un bancomat, grazie all’intesa operativa raggiunta a Ottobre dalle principali Telco italiane (Telecom Italia, Vodafone, Wind, H3g e Poste Mobile) sull’impiego della SIM NFC (Near Field Communication); una legislazione che incentiva l’uso dei pagamenti elettronici, posta alla ribalta con i decreti “SalvaItalia” e “Sviluppo-bis”.

In questo contesto, l’attaccamento degli italiani al contante vacilla: nel 2012 quasi un miliardo di euro è stato pagato dagli italiani utilizzando il cellulare come strumento di attivazione del pagamento.
Il Mobile Remote Payment & Commerce passa infatti da 700 milioni di € nel 2011 a oltre 900 milioni di € nel 2012, registrando una crescita del +30%.

Di questi, ben 470 milioni di € derivano dall’utilizzo del Mobile Payment per l’acquisto dei contenuti digitali per gli smartphone, in crescita del 15% rispetto al 2011: gli italiani abbandonano infatti l’acquisto di contenuti tramite SMS (in calo del 12%) ma si rivolgono agli appstore per effettuare acquisti di app, in crescita del 20%.

L’utilizzo del Mobile Remote Payment & Commerce per beni e servizi registra invece una straordinaria crescita del 60% raggiungendo un valore di circa 310 milioni di €.
Contribuisce a questo successo la crescita del Mobile Remote Commerce, ovvero gli acquisti online che implicano anche l’uso del cellulare in una o più fasi.

Turismo e trasporti, coupon, aste e gruppi di acquisto sono i settori più attivi (86% del valore delle transazioni): il Mobile si conferma così un canale ottimale per veicolare quegli acquisti dove è importante per i consumatori cogliere un’occasione essendo online in un preciso istante.
E diversi negozianti stanno cogliendo a loro volta questa opportunità: su un campione di oltre 200 tra i principali esercenti attivi nell’eCommerce, 1 esercente su 3 ha puntato anche sul canale Mobile (nel 2011 era 1 esercente su 5). Il 55% dei player attivi ha sviluppato sia l’App sia il Mobile site.

Il pagamento diretto con cellulare a fronte di un servizio raggiunge un valore pari a 130 dei 310 milioni di € del Mobile Remote Payment & Commerce per beni e servizi. L’80% circa di questo importo è stato speso per acquistare ricariche telefoniche e pagare i bollettini, ad esempio il canone Rai o i bollettini postali.
Il restante 20% è stato utilizzato per pagare servizi soprattutto nell’ambito della mobilità, come il pagamento della sosta, dei biglietti del trasporto pubblico locale, e di taxi, car&bike sharing e ztl.

E proprio questo utilizzo può diventare la “killer application” in grado di diffondere il mobile payment. Si stima, infatti, che siano oltre 700.000 le ore di parcheggio pagate dagli italiani attraverso il cellulare, oltre 600.000 i biglietti di corsa semplice e qualche migliaio le ricariche degli abbonamenti per il trasporto pubblico locale attivate da Mobile, mentre le corse di taxi pagate con cellulare sono quasi 10.000. Per un totale di oltre 1 milione di transazioni di piccolo importo.

Gli ultimi 150 milioni di € del valore del mercato Mobile Remote Payment & Commerce, derivano dalle attività di Mobile Money Transfercresciute del 50% nel 2012: l’84% è rappresentato dall’acquisto di ricariche di carte prepagate, il 13% dal trasferimento di credito telefonico e solo il 3% da “vero e proprio” Mobile Money Transfer p2p.

 

Fonte: Osservatorio NFC & Mobile Payment del Politecnico di Milano, febbraio 2013

L’affermazione del pagamento tramite cellulare in Italia è però legata soprattutto allo sviluppo del Mobile Proximity Payment, l’opportunità di utilizzare lo smartphone come una carta di credito mediante l’impiego della SIM NFC.

L’accordo firmato a ottobre 2012, in concomitanza con il GSMA NFC Mobile Money Summit, dagli operatori telefonici nazionali ha permesso la realizzazione di una piattaforma comune dedicata al pagamento. E se il 2013 si preannuncia come l’anno dell’affermazione definitiva, il 2012 è stato l’anno del lancio di numerose sperimentazioni nel Mobile Proximity Payment.

Focalizzando la nostra attenzione sulla variante NFC Card Present, abbiamo misurato gli asset essenziali su cui, già adesso, si può contare in Italia”, affermano Valeria Portale e Giovanni Miragliotta, Responsabili dell’Osservatorio NFC & Mobile Payment. “A fine 2012, vi erano circa 30.000 terminali POS NFC attivi, partendo dai circa 5.000 del 2011, e gli impegni già assunti dagli attori dell’ecosistema portano a stime conservative, per fine 2013, di oltre 170.000 POS operativi (più del 10% del totale). Sempre a fine 2012 si contavano circa 2,5 milioni di telefoni NFC già venduti che, secondo le nostre stime più conservative (in termini di spesa pro-capite per la sostituzione del parco telefoni e di scelta di Apple per il prossimo iPhone)diverranno circa 6,0 milioni a fine 2013. Infine, dal 2011 al 2012 le carte contactless circolanti sono passate da 750.000 ad oltre 2 milioni, con piani molto aggressivi sulle nuove emissioni e sulle sostituzioni. Sono passi da gigante, se si considera la scala temporale su cui sono misurati, che ci portano a dire che in Italia, ma anche in Europa, il “punto angoloso” della curva di diffusione dell’NFC è alle nostre spalle

L’evoluzione attuale del mercato permette di tratteggiare due scenari di sviluppo del Mobile Payment nei prossimi tre anni, legati alla modalità tiepida o convinta con cui gli attori dell’ecosistema gestiranno la creazione di servizi e la diffusione di tecnologia per fruirli. 

Secondo la simulazione del Politecnico di Milano, a fine 2016 e con riferimento ai due scenari già menzionati, il numero di utenti che pagheranno mediante una soluzione di Mobile Proximity Payment, oscillerà tra 6,0 e 10,3 milioni di utenti, a fronte di un parco cellulari NFC medio che supera i 25 milioni di unità: il parco esercenti dotati di POS NFC oscillerà tra 405.000 e 610.000, caso quest’ultimo che mantiene nel tempo dinamiche di crescita simili al 2013, già notevoli.
Da queste stime emerge come nello scenario “tiepido”, il valore dei pagamenti mediante Mobile Proximity Payment  al 2016 sarà di 4,7 miliardi di euro, dei quali 1,5 miliardi verranno effettuati nei micro-pagamenti. Nello scenario in cui gli attori sono convinti dell’investimento in questa nuova modalità di pagamento, il transato intercettato salirebbe a 10,8 miliardi di euro (+130%), di cui 4,3 miliardi di micro-pagamenti (+187%). 

“Se singolarmente telco, issuer o acquirer lavorassero al massimo delle proprie possibilità, avendo dagli altri attori una risposta attendista, non si otterrebbero neppure lontanamente i risultati prospettati nello scenario in cui gli attori sono convinti”, commenta Alessandro Perego, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio NFC & Mobile Payment.
Ed un euro investito da un ecosistema coordinato rende, in termini di capacità di intercettare il transato, il 140 % in più di un euro speso da un attore isolato. Considerando che il totale delle transazioni oggi regolate in Italia per mezzo di contanti è stimabile in circa 400 miliardi di euro l’anno, gli spazi, anche nello scenario più “convinto” sono davvero enormi, e saranno colti – pensiamo rapidamente – negli anni a venire. L’importante, adesso, è seminare nella direzione che assicuri la massima velocità di crescita”.

E sono già molte le iniziative lanciate nel 2012 o programmate nel 2013, frutto della collaborazione “convinta” tra telco, issuer o acquirer. Nel corso della sessione pomeridiana della presentazione dell’Osservatorio NFC & Mobile Payment ne verrà presentata una selezione che include Bemoov (Consorzio Movincom),  Day Tronic Mobile (Day Ristoservice), Mobile Ticketing (Netsize), Move and Pay (Intesa Sanpaolo), Pay On Delivery (PayPal), QR Money (CartaSi), Quick POS (CartaSi, Ingenico Italia), Servizi Remote & Proximity di PosteMobile, TIM Wallet (Telecom Italia), myworkspace (Univerce), Vodafone Smart PASS NFC (Vodafone Italia, CartaSi, SIA), YouPass BNL (Vodafone Italia, 3 Italia, SIA) e Auriga.

  • L’edizione 2013 dell’Osservatorio NFC & Mobile Payment è realizzata con il supporto di: Auriga, CartaSi, CheBanca!, Movincom, Day Ristoservice, Edenred Italia, Ingenico, Intesa Sanpaolo, modomodo, Neomobile, Netsize, OPENTECH, PayPal, PosteMobile, Samsung, Sensei, SIA, Telecom Italia, TotalErg, Ubiquity, Univerce e Vodafone; 3 Italia, Banca Marche, Banca Popolare di Sondrio, Banca Sella, Capgemini, Cashlog, Centili, Comesterogroup, D2, InfoCert, Konvergence, Lottomatica Servizi, Lynx, Nòverca Italia, Oberthur Technologies, RetAPPs, Research In Motion, StMicroeletronics

Il social business è un’utopia o già una realtà?

Negli ultimi anni si fa un gran parlare di social innovation e di social business, fenomeni che si stanno diffondendo a macchia d’olio. Di cosa si tratta? 
Ne abbiamo parlato con Roberto Randazzo, partner presso R&P Legal – Rossotto, Colombatto & Partners e docente di Diritto degli Enti non Profit presso Università Commerciale ‘Luigi Bocconi’.

«In realtà è il terzo settore che si sta trasformando; sta cambiando la struttura degli enti che si occupano di queste tematiche, ora si parla di imprenditoria sociale e c’è un’attenzione da parte dei potenziali investitori, i cosiddetti detentori di capitali pazienti che sono attratti da questo settore».

La domanda che questa nuova tipologia d’investitore si pone è quindi la seguente: com’è possibile impiegare il denaro in modo tale da massimizzarne l’impatto sociale?

Una domanda complessa che, peraltro, non sostituisce ma si affianca alle più tradizionali questioni tipiche dell’investitore che riguardano l’orizzonte temporale, la liquidità dell’investimento, il grado di garanzia del capitale e quant’altro.

«I finanziatori cercano Il blended value ovvero un ritorno del capitale più un valore sociale generato dall’impresa finanziata. L’investitore accetta un rendimento minore per supportare l’output sociale. Si tratta di una nuova figura posta a metà tra il filantropo e l’investitore tradizionale; un soggetto disposto a rinunciare a una parte più o meno rilevante della redditività del proprio patrimonio, a favore della creazione di una diversa forma di valore: l’utilità sociale».
Ci sono già alcune case history come ad esempio il fondo britannico Bridge Ventures all’inizio supportato dal pubblico e poi in seguito finanziato dal mercato, in Italia siamo all’inizio di questo percorso e c’è ancora molto da fare.

Mind the Seed chiude il primo accelerator batch: ecco 6 le startup finanziate

San Francisco, 19 FEB – Un periodo di 10 settimane di accelerazione a San Francisco all’interno del GYM di Mind the Bridge e un primo investimento diretto per Atooma, Bad Seed Entertainment, in3DGallery, Map2App, Myze e Weendy.

Queste le 6 startup scelte per accedere al Winter batch 2013, programma di accelerazione di Mind the Bridge con investimenti del fondo Mind the Seed (il secondo gruppo – summer – partirà ad agosto). Una rosa di talenti provenienti da Italia, Israele, Grecia, Spagna e Stati Uniti a conferma dell’apertura internazionale verso il Mediterraneo che rappresenta la novità 2013 per la fondazione Mind the Bridge.

“Il lavoro di scouting che abbiamo svolto negli ultimi mesi, con particolare interesse al sud Europa, ha portato i suoi frutti – commenta Marco Marinucci, founder di Mind the Bridge – Le startup che abbiamo invitato, e sulle quali MTS ha effettuato un primo investimento seed, sono outsider con tutte le carte in regola per crescere in grande. Il modello ‘testa e mercato in Silicon Valley’ ma sviluppo nel paese d’origine è quanto mai vincente in questi momenti di esuberanza di mercato hi-tech in Silicon Valley”.

Mind the Seed (MTS) è infatti un fondo di seed venture con base negli Stati Uniti che si propone di agire da primo investitore istituzionale per le migliori startup che passano attraverso la rete di scouting di Mind the Bridge. L’obiettivo è allinearsi al loro successo. Una novità importante quella introdotta a inizio anno dalla fondazione americana che, pur conservando l’orientamento non-profit delle proprie attività, trova in Mind the Seed una struttura di  investimento professionale che possa supportare concretamente le startup nei loro primissimi passi verso la via del successo, generando allo stesso tempo un ritorno economico per gli investitori.

E se l’obiettivo finale è quello di lanciare imprese dall’ambizione internazionale, con centro in Silicon Valley e R&D in Europa, ecco che da quest’anno la fondazione apre anche a talenti dall’intera area mediterranea, ricca di competenze tecniche di alto livello ma a costi competitivi.

“L’Italia resta la nostra area di elezione, la colonna portante del nostro ‘ponte’ – precisa Alberto Onetti, Chairman della fondazione – Ma abbiamo avuto richieste per replicare il modello di Mind the Bridge da tutta Europa. E siamo convinti che, oltre a dare una mano a sviluppare innovazione e imprenditorialità in altri paesi che, come il nostro, versano oggi in una situazione di difficoltà, l’apertura al Mediterraneo porti benefici anche alle nostre imprese che si ritroveranno a confrontarsi – al Gym di One Market Plaza (San Francisco) – in un ambiente cosmopolita, con evidenti vantaggi in termini di stimoli e possibilità di apprendimento”.

Ed ecco quindi le 6 startup appena finanziate da Mind the Seed che si preparano a presentarsi a un panel di investitori in occasione del demo-day del 14 marzo, organizzato al MtB Gym:

1. Atooma è una app che rende gli smartphone davvero “smart” ovvero capaci di seguire i comportamenti dell’utente in maniera intelligente. Con Atooma infatti il telefonino può automaticamente leggere le mail con comandi vocali quando si è alla guida o attivare la modalità silenziosa quando si arriva sul posto di lavoro. Inoltre con Atooma si possono creare mini-app in pochi secondi senza alcuna conoscenza tecnica: gli utenti della community possono condividere le Atooma create, scaricare quelle degli altri utenti e attivarle in un solo click. www.atooma.com

2. Bad Seed Entertainment dà vita a console di qualità per videogame con elementi unici di gameplay, per cellulari e applicazioni su piattaforme iOS e Android. Nata per regalare ai giocatori la miglior esperienza di gioco possibile, Bad Seed ha recentemente lanciato Sheep Up!, gioco per iPhone e iPad che sfida l’utente a guidare un gregge di pecore dal fondo di una scatola di vecchi giocattoli fino alla sommità della scatola e alla libertà. www.badseedenteirtainment.com

 3. in3Dgallery è un innovativo tool di presentazione 3D, basato su tecnologia web3D in real time che migliora l’esperienza di visualizzazione delle immagini attraverso una app web, facebook  e mobile. Strumento ideale per professionisti, fotografi, imprese, musei e qualsiasi altro utente voglia condividere il  proprio portfolio invitando ospiti da ogni parte del mondo.www.in3dgallery.com  

4. Map2App è una piattaforma web che consente a chiunque di creare guide territoriali per iPhone e Android e distribuirle tramite Apple Store e Google Play. Utile per aziende, enti e autori indipendenti desiderino trasformare in modo semplice, veloce ed economico contenuti in loro possesso relativi a un territorio o a un evento in una app multi-piattaforma. www.map2app.com

5. Wallie è una applicazione per cellulare e web che aiuta gli shopper online a risparmiare denaro, scegliendo la giusta carta di credito. A seconda delle promozioni, degli sconti e delle offerte disponibili. Questo permette ciascun utente di diventare uno “smart shopper”, ovvero un acquirente intelligente. www.wallieinc.com

6. Weendy  è una app che permette di trovare e condividere le migliori condizioni di vento, onde e neve con i propri amici e con tutte le persone che nutrono il medesimo interesse. Compagno ideale per sport di vento, consente di “catturare” la condizione atmosferica e di postare in piattaforma un commento che viene notificato all’istante ai propri contatti su Twitter, Facebook o Foursquare.  www.weendy.com

 

Videointervista a Greg Schott – President and CEO of MuleSoft

MuleSoft, connecting the New Enterprise

Durante il tour nella Silicon Valley ho visitato  MuleSoft azienda che fornisce la piattaforma di integrazione SaaS più utilizzata per il collegamento di applicazioni enterprise nel cloud.

Ha sede a San Francisco, con uffici in tutto il mondo. L’azienda è privata e finanziata da venture capital dal luglio 2006.

Fondata sull’idea che le applicazioni di collegamento non dovrebbero essere difficili, MuleSoft consente alle organizzazioni di sfruttare la potenza delle loro applicazioni attraverso l’integrazione.

Il progetto open source Mule è stato fondato nel 2003 da Ross Mason, CTO di MuleSoft che ha deciso di creare una nuova piattaforma che metteva in risalto la facilità di sviluppo, la flessibilità e il riutilizzo dei componenti. La piattaforma immediatamente ha trovato un seguito ed è cresciuta rapidamente in termini di adozione, ora conta oltre 100.000 sviluppatori nella comunità Mule.

Ora, MuleSoft ha lanciato la prossima generazione d’integrazione con CloudHub ™, la prima piattaforma d’integrazione fruibile come un servizio (iPaaS). CloudHub è una cloud-based piattaforma d’integrazione, costruita sulla tecnologia leader d’integrazione Mule al centro, che consente agli sviluppatori e team di applicazioni d’integrare ed orchestrare applicazioni e servizi senza soluzione di continuità in tutta l’azienda e nel cloud.

Oggi, MuleSoft è utilizzato in produzione da migliaia d’imprese leader di settore come Walmart, MasterCard, Nokia, Nestlé, Honeywell e DH.

Con Greg Schott, President e CEO di MuleSoft, abbiamo ripercorso la storia dell’azienda, con un focus sul mercato e un approfondimento sul futuro dell’integrazione.

Symform – Join the revolution

Durante il tour nella Silicon Valley ho visitato Symform un’azienda che propone di utilizzare il network per risolvere il problema dello storage e del backup.

La similitudine con il Grid Computing è molto forte e forse potrebbe davvero rivoluzionare questo settore.

Symform è un sicuro servizio di backup basato sul cloud. La rete di archiviazione Symform protegge i file, la vostra attività: chiunque decida di contribuire alla rete, avrà a vostra disposizione spazio illimitato sul cloud e servizi di backup gratis. A differenza dei tradizionali centri di stoccaggio dati, la rete Symform cripta, divide, e distribuisce a livello mondiale i dati. Questa tecnologia dirompente fornisce più sicurezza e garantisce un abbattimento dei costi oltre che prestazioni superiori rispetto a qualsiasi alternativa di oggi. I clienti che si collegano alla rete Symform contribuiscono fornendo una percentuale dell’eccesso del loro spazio disco locale e in cambio ricevono un servizio di backup gratuito sul cloud.

Con Praerit Garg, President and Co-Founder of Symform, abbiamo ripercorso la storia dell’azienda, con un focus sula loro rivoluzionaria, rete distribuita di cloud storage.

Fondazione Telecom Italia – online il nuovo sito

Oggi come ieri, il Gruppo Telecom Italia crede fermamente che una Fondazione attenta alle nuove emergenze sociali e a forme innovative di relazione, possa incarnare e concretizzare efficacemente il suo impegno sul fronte della responsabilità sociale d’impresa e del rapporto con la comunità.

Lavorare in una fondazione d’impresa significa confrontarsi quotidianamente con stimoli e verifiche continue, ma soprattutto significa essere disposti a mettersi in relazione, con il mondo sociale e non solo, perché proprio la varietà di fronti su cui Fondazione è impegnata costituisce la sua grande ricchezza.

A quattro anni dalla sua nascita, Fondazione Telecom Italia è pronta ad aprire le porte del suo mondo come mai prima d’ora e vi invita a  visitare un sito fortemente rinnovato e potenziato – http://www.fondazionetelecomitalia.it/

“Non più un canale puramente istituzionale, bensì un portale dinamico che presenta le attività e i progetti operativi della Fondazione in modo completo, semplice ed invitante: un vero strumento di comunicazione multimediale dove il linguaggio è utilizzato in modo innovativo, orientato al web 2.0 e ai social network.
Cuore pulsante di tutti i nostri progetti sarà la tecnologia, imprescindibile fattore vivificante e abilitante anche del Terzo Settore per aiutare le esigenze dell’intera collettività.

Destinatari primari del sito sono le associazioni no-profit, il Terzo Settore, i beneficiari dei progetti e tutti gli enti interessati a partnership e attività congiunte.” Marcella Logli – Segretario Generale Fondazione Telecom Italia

Una ricerca analizza come i responsabili HR vengono percepiti dal management delle aziende europee

Secondo lo studio della Economist Intelligence Unit, CEO e CFO riconoscono il valore della relazione con i responsabili HR ma auspicano un maggiore coinvolgimento, allineamento e comprensione della strategia di business

La notizia

Uno studio recentemente condotto dalla Economist Intelligence Unit (EIU) e sponsorizzato congiuntamente da Oracle e IBM ha analizzato come i top manager delle aziende europee percepiscano il ruolo dei responsabili delle Risorse Umane. L’analisi è stata realizzata per identificare le aree di opportunità per i responsabili delle Risorse Umane che vogliano aiutare le rispettive organizzazioni a raggiungere gli obiettivi strategici.
L’Economist ha intervistato 235 top manager, 95 dei quali basati in Paesi dell’Europa Occidentale come Belgio, Francia, Germania, Italia, Svizzera e Regno Unito. Il 57% del campione appartiene alla categoria dei CEO o ruoli equivalenti, e il 43% a quella dei CFO o ruoli equivalenti.
Lo studio “C-level perspectives of the HR function in Western Europe” evidenzia che sono molti i CEO e i CFO per i quali la competenza e l’esperienza della funzione HR circa le criticità relative al personale possono aiutare realmente un’azienda ad assumere decisioni complesse ma cruciali in periodi economicamente difficili.
Lo studio ha anche confermato come il management delle aziende europee consideri di valore la propria relazione con i responsabili HR: nel 69% dei casi gli intervistati hanno descritto tale rapporto lavorativo come “collaborativo e di fiducia” e nel 63% lo hanno definito “di elevato valore”.
L’analisi rivela però come ci sia comunque un margine di miglioramento affinché la funzione Risorse Umane diventi ancora più strategica. Solo il 38% degli intervistati ritiene infatti che il responsabile HR svolga un ruolo chiave nella pianificazione strategica e solo uno su dieci pensa che tale ruolo sia “assolutamente determinante”.
Come i responsabili HR dell’Europa Occidentale possono posizionarsi meglio in un’ottica di successo

La maggioranza degli intervistati ha espresso preoccupazione rispetto alla effettiva capacità dei responsabili delle Risorse Umane di comprendere le dinamiche business nella loro globalità. Per il 42% il responsabile HR resta infatti troppo focalizzato sui processi e incapace di cogliere lo scenario complessivo, mentre per il 36% non comprende a sufficienza il business aziendale.
L’analisi mostra inoltre come i responsabili HR che hanno punti di vista simili a quelli dei CEO e dei CFO hanno altresì maggiori probabilità di risultare influenti. In effetti, l’81% di coloro che appoggiano pienamente la strategia HR attuata dal relativo responsabile di funzione ritiene che quest’ultimo ricopra una posizione strategica fondamentale.
I top manager delle società di grandi dimensioni risultano maggiormente preoccupati da possibili criticità relative alle risorse umane che possono condurre a una carenza di leadership. Oltre due terzi degli intervistati che operano in imprese con più di 1.500 dipendenti teme che una mancanza di di leadership possa danneggiare finanziariamente l’azienda nei prossimi 12 mesi; tale preoccupazione è condivisa solo dal 49% di coloro che lavorano invece presso realtà più piccole.
Un altro dato interessante è come il top management delle aziende più grandi tra quelle intervistate (fatturato annuo superiore ai 10 miliardi di dollari) discuta con maggiore frequenza le problematiche di talent management con i propri responsabili delle risorse umane. Il 42% degli intervistati che appartengono alle società più grandi afferma infatti di avere frequenti occasioni di confronto relative alle performance e allo sviluppo del Management, rispetto al 24% degli intervistati delle imprese di dimensioni inferiori.
Pertanto, il responsabile HR ha l’opportunità di influenzare sensibilmente la direzione strategica della propria azienda laddove:
lavori presso un’organizzazione di grandi dimensioni;
sia capace di pensiero strategico, in particolare nello sviluppo di personale di livello senior;
sappia condividere idee analoghe al CEO e al CFO in materia di strategia HR.
Dichiarazione a supporto
“Non sorprende vedere come la maggiore preoccupazione degli executive che lavorano presso grandi società sia costituito dalla strategia e dallo sviluppo di talento a livello di leadership”, ha commentato Gretchen Alarcon, Vice Presidente, Oracle HCM Strategy. “I responsabili HR possono provare il loro valore a CEO e CFO focalizzando l’attenzione su strategie finalizzate a favorire il talento nelle figure senior e a trattenere i migliori leader già presenti in azienda”.
IBM è membro Diamond di Oracle PartnerNetwork (OPN).

Risorse a supporto

 

Perché la rete libera il Sud dalla questione meridionale

“L’innovazione, con la Rete, ha al suo servizio velocità e quantità. Dovunque ci porti, non possiamo evitare di andarci”

Il Sud è una risorsa per il nostro Paese, questo è un dato di fatto! Tutti ne parlano: chi ipotizzando nuove politiche industriali, chi fantasticando il ritorno del Regno delle Due Sicilie. L’attenzione è molta ma è facile cadere nella demagogia. Spostando il focus sulla tecnologia e l’innovazione quello che vorrei capire è se davvero come si dice, queste sono le leve su cui puntare per risollevare il Meridione. Io credo di sì.

Pino Aprile, giornalista e scrittore, autore del libro “Mai più terroni

è convinto che la tecnologia sia l’arma con cui arrivare finalmente alla fine della Questione Meridionale

In che modo la tecnologia rende libero il Sud?

La Rete è un mondo senza distanze, dimensioni e senza ostacoli, frontiere. Chiunque vi entri, vale come chiunque altro e non importa da dove agisci; importa solo se fai clic ed entri in Rete o clic, e ne esci. Questo pone il Sud (non solo il nostro) penalizzato da mancanza di strade, aeroporti, ferrovie, nelle stesse condizioni di chiunque; e può competere alla pari, finalmente. E vince, quando ne ha le capacità. 

Puoi citarmi alcuni dei casi virtuosi che hai inserito nel tuo libro?

A Bisaccia, Comune terremotato dell’Irpinia, Patrick Arminio, 21 anni, nato a Basilea e rientrato al suo paesello, con i suoi coetanei mette su un’azienda di grafica con cui  progetta e conduce la campagna promozionale dell’ultimo cd di una pop star statunitense; dal Salento, un creativo produce per Google, in California (a giudicare dallo stipendio, a livelli altissimi) e due neodiplomati inventano “app” fra le più vendute dalla Apple. L’università di Lecce è ormai una multinazionale della ricerca, dell’innovazione: nei suoi laboratori si scopre come recuperare i metalli preziosi che vengono vaporizzati durante gli esperimenti (è, letteralmente, trarre oro da spazzatura); si mette a punto il primo microscopio tridimensionale; si varano sistemi di controllo dell’automazione per la Marina militare indiana; si isola una cellula iperassorbente che toglie la sensazione di fame e che darà luogo, secondo gli analisti, a una delle 15 più potenti economie del pianeta, nei prossimi anni. Mentre un giovane di Conversano, spendendo 200mila euro, mette a punto il più potente motore di ricerca e offerta di lavoro on line, rivendendolo poi per 30milioni di euro. E in Sicilia, un neolaureato di Scordia, da Milano organizza, on line, con volontari, il recupero della valle degradata del suo paese, poi vi torna e la trasforma in parco. Nei sei principali distretti dell’innovazione, al Sud, lavorano ormai già in 30mila: un quarto delle esportazioni italiane, nel settore, è prodotto da loro.

L’innovazione può fare tanto, anche se mancano alcune basi come democrazia, istruzione, infrastrutture?

La Rete è ormai un altro mondo, cui il vecchio tende a somigliare (cadono le frontiere, l’Europa si dota di moneta unica; l’impero sovietico si apre al mercato e alle idee, la Cina smette di essere un mistero e si riduce a concorrente). La Rete, il mondo punto-zero è la terza rivoluzione della storia dell’umanità, dopo la scoperta dell’agricoltura e quella industriale. Chi si abitua alla parità che c’è sul web, accetta sempre meno le disparità che trova quando spegne il computer. I vecchi poteri cercheranno di controllare anche questo territorio di libertà, ma è sempre più difficile, paradossalmente, si direbbe, proprio per la possibilità di farlo troppo: puoi controllare, in Rete, se vuoi, tutto di tutti. È tanto, che ti ci puoi perdere, rischi di non riuscire a tener chiuse tutte le porte, tutte insieme. La Cina cerca di abbinare controllo della gente con anarchia produttiva, ma è una battaglia persa. La rete è uno strumento attraverso il quale puoi istruirti, raggiungere chiunque, intraprendere. Tanto che, dal mondo 1.0 (passaggio di informazione da uno a uno), si è velocemente passati a quello 2.0 (da uno a tutti e da tutti a uno: non più comunicazione, ma comunità) e ora si discute di 3.0 e @democracy, ovvero la definizione di regole per governare il mondo e il popolo della Rete: solo Facebook, con un miliardo di frequentatori, è stato definito “il terzo Paese più popoloso del pianeta”. L’innovazione, con la Rete, ha al suo servizio velocità e quantità. Dovunque ci porti, non possiamo evitare di andarci.

Condivido molte delle opinioni e delle idee di Pino, ma non posso fare a meno di pensare che ci sia il rischio concreto di spostare la discriminazione. Non più territoriale ma forse anagrafica, nel Web i giovani sono avvantaggiati rispetto agli anziani oppure discriminazione tecnologica, non a caso si parla spesso di Digital Divide. Non tutti hanno accesso allo stesso modo alla tecnologia né in Italia né in altre parti del Mondo.

Forse è un sogno ma mi piacerebbe che la tecnologia riuscisse davvero a essere democratica senza guardare in faccia nessuno e garantendo a tutti le stesse possibilità.

Sul rapporto tra innovazione e Sud ho chiesto un parere sull’argomento anche ad un altro amico, lo scrittore Antonio Menna, autore del best sellerSe Steve Jobs fosse nato a Napoli

che ha un punto di vista più pragmatico

In che modo la tecnologia rende libero il Sud?

La tecnologia, intesa come nuovi media, può aiutare molto a superare ritardi storici di alcuni territori. Il sud può trarre dalla Rete, grosse opportunità, sia in termini di conoscenze sia in termini di movimento,  delle idee e dei prodotti. Uno degli ostacoli storici alla crescita dell’economia meridionale è stato proprio il mancato collegamento con i grossi mercati europei, la lontananza anche fisica. Oggi molte idee d’impresa e molti prodotti viaggiano con un click e questo accorcia le distanze, mette in campo anche i luoghi più remoti. C’è poi un’idea di libertà legata alla conoscenza, all’informazione, che, con la Rete, si allarga, include anche chi era tagliato fuori. Infine, la Rete è un luogo dove insediare talenti creativi, non necessariamente produttivi, senza grossi costi e facendo leva prevalentemente sulle abilità personali. Saltano le mediazioni, ciascuno può esprimersi e questo dà più forza a chi era lontano dai luoghi, ad esempio, dell’editoria cartacea, musicale, dai mercati dell’arte. Chi ritiene di avere un talento creativo può provare a esprimerlo anche lontano dai centri tradizionali del potere. E avere, magari, successo.

Perché molti talenti decidono di lasciare il Sud?

Le possibilità sono due: insistere, oppure andarsene. Non biasimo nessuna delle due scelte. Chi vuole insistere, è giusto che lo faccia, sapendo i rischi e gli ostacoli che ci sono. Chi se ne vuole andare ha il diritto di farlo, sapendo che comunque non è facile sradicarsi, rinunciare a pezzi della propria identità. C’è sempre un costo. Nel mio libro ho usato una storia paradossale non per dire che in Italia, e a Napoli, le cose non si possono fare, ma che si fanno con grandissima difficoltà, e che si perdono grosse potenzialità. Potremmo fare cento, e invece facciamo venti. L’ottanta per cento della forza dei nostri talenti lo disperdiamo su ostacoli, problemi, fattori esterni che non si vogliono affrontare o risolvere. Accesso al credito, burocrazia, inefficienza della pubblica amministrazione, corruzione, criminalità organizzata sono ostacoli oggettivi allo sviluppo, e colpiscono soprattutto i più giovani, i più liberi, i più innovatori. Qualcuno resta, insiste, ci prova. Molti falliscono, qualcuno riesce. Altri se ne vanno, e diventano eccellenze nel mondo, lasciando a noi il rammarico di averli perduti. 

Davvero la tecnologia è la panacea?

Io credo nella forza della rete, nelle nuove comunicazioni, nella tecnologia ma farei attenzione a non enfatizzarle troppo. Intanto perché queste hanno bisogno anche d’investimenti strutturali. Penso alla banda larga, cui mi pare sia estranea buona parte del Paese, e buona parte del Sud. Penso a una Pubblica amministrazione che ancora ti chiede di produrre carte. Penso a una scuola che è ancora attaccata ai feticci del passato, che fatica a modernizzarsi. Se non si fa un lavoro preliminare su queste aree, è difficile immaginare l’innovazione come campo di un nuovo sviluppo. Poi rifletterei sul fatto che noi, per rispondere al bisogno di lavoro che c’è al sud, abbiamo bisogno di creare occupazione di massa, per grossi volumi. Le start up che vedo in giro, nell’innovazione e nella tecnologia, almeno quelle nate in Italia, anche quelle più brillanti, mi sembra che diano occupazione a poche persone. Vedo grande intelligenza, talento creativo, ma poca capacità produttiva. Così sarà difficile superare la crisi del sud, che è soprattutto crisi occupazionale, mancanza di lavoro, mancanza di prospettiva personale.

La Rete però non è solo un’occasione di riscatto per il futuro è già presente e non mancano esperienze di successo come ad esempio Ninjamarketing,: se non fosse stato per internet come sarebbe stato possibile che un cult dell’economia digitale risiedesse a Cava de’ Tirreni, alle porte della Costiera Amalfitana lontano dai centri di potere? Quali sono i fattori critici di successo?

Per Alex Giordano, esperto di etnografia digitale – “Diciamo che aldilà di realtà pop la cosa interessante è che la natura tribale e diffusa, fatta di tante preziose bellezze e tipicità, tipica del mediterraneo, risponde perfettamente alla metafora della Rete e quindi mi aspetto che ci siano tante realtà che riusciranno ad interiorizzare l’etica del networking non solo nel web ma anche e sopratutto nelle forme di organizzazione, di cooperazione, di socializzazione. Solo così sarà possibile che  il grano autoctono di Caselle In Pittari (nel Cilento) , saprà mettersi in rete con i volontari locali del WWF che insieme all’amministrazione comunale di Morigerati (sempre in Cilento) ha restaurato gli antichi mulini a pietra per fare un pane buonissimo che può essere venduto anche attraverso il web.”

Quest’approccio funziona con i singoli producendo eccellenze e best practices ma non funziona a livello macro e non diventa sistema, perché?

Perché dobbiamo capire che il social network non è un software, un qualcosa che risiede nel web, ma è un’etica da recuperare. E se saremo bravi a fare quello che non siamo stati bravi a fare, in altre parole sistema, potremo competere da leoni su un piano global.

Tutto quello che è emerso, è sicuramente da tenere a mente per la costruzione di un futuro migliore del Sud, in attesa di ciò però voglio rilevare alcuni casi virtuosi. Ci sono tanti casi meritevoli di essere citati e anzi mi piacerebbe che nei commenti citiate casi di successo che magari ancora non sono noti al grande pubblico.

Parto da Vulcanicamente,

progetto del Comune di Napoli voluto dall’Assessore Marco Esposito che ha saputo risvegliare il magma che ribolliva a Napoli dando a molti ragazzi la possibilità di provare a realizzare i loro sogni. Alcuni numeri (5 tappe in 5 facoltà diverse napoletane, più di 100 partecipanti, 72 progetti, sei startup già finanziate tra cui DeRev di Roberto Esposito).

In Puglia segnalo: QIRIS: un incubatore di start-up e iniziative innovative, promotore tra l’altro di BeMyApp Italia, follow-app e Startificio. Laboratori dal Basso la nuova idea di Bollenti Spiriti e ARTI Puglia per sostenere le giovani idee di impresa con formazione guidata dalla domanda.

Dal mio punto di vista mancano ancora due cose per fare il salto di qualità: la capacità di fare sistema per costruire davvero un ecosistema dell’innovazione che aiuti tutti a realizzare i propri sogni, dove le Università insegnino agli studenti cosa vuol dire fare l’imprenditore, dove le istituzioni comprendano davvero il valore dell’innovazione delle nuove tecnologie, dove i capitalisti, non solo i Venture capitalist, ma anche i piccoli borghesi o i palazzinari capiscano che investire in innovazione possa essere  molto conveniente. Inoltre manca ancora la vision, quella con cui ad esempio il mio amico Luca Perugini ipotizzava una riconversione dell’Ilva di Taranto in un Data center di Google,

sarebbe bello se un’idea simile venisse ai nostri politici no?

Cloudera – The platform for Big Data

Durante il tour nella Silicon Valley ho visitato Cloudera una startup protagonista nel settore dei Big Data.

Cloudera, sviluppa e distribuisce Hadoop, il software open source che alimenta i motori di elaborazione dei dati di siti web più grandi e più popolari al mondo.

Cloudera è leader nell’utilizzo del software Apache Hadoop-based e offre servizi e una potente piattaforma dati che permette alle aziende e alle organizzazioni di guardare tutti i loro dati – strutturati e non strutturati – in modo da rispondere a molte grandi domande dando di fatto una visibilità senza precedenti, il tutto alla velocità del pensiero.

Oggi, Cloudera è leader di mercato con decine di migliaia di nodi in gestione; i mercati serviti includono i servizi finanziari, pubblica amministrazione, telecomunicazioni, media, web, pubblicità, vendita al dettaglio, l’energia, la bioinformatica, farmaceutico / sanitario, ricerca universitaria, petrolio e gas, giochi e altro ancora.

Fondata da esperti di primo piano sui Big Data  (tre migliori ingegneri di Google, Yahoo e Facebook (Christophe Bisciglia, Amr Awadallah e Jeff Hammerbacher, rispettivamente)  a cui si si era unito con un ex Executive di Oracle (Mike Olson)) ha l’obiettivo di affrontare “i problemi inerenti l’analisi rapida ed efficace di  grandi moli di dati.

Con sede in Silicon Valley, Cloudera ha il sostegno finanziario di Accel Partners, Greylock Partners e di alcuni angels tra i quali Diane Greene (ex CEO di VMware), Marten Mickos (ex CEO di MySQL), e Jeff Weiner (CEO di LinkedIn). I fondatori del progetto Hadoop, Doug Cutting e Mike Cafarella sono i consulenti di Cloudera.

Con Mike Olson, Chief Executive Officer di Cloudera, abbiamo ripercorso la storia dell’azienda, con un focus sul business model e sugli skills che deve avere la figura del Data Scientist.

 

Startup Marketing

Seguo il mondo delle startup per lavoro da alcuni anni; ho visto crescere questo fenomeno negli ultimi tempi in maniera vertiginosa, ormai tutti parlano di questo nel settore IT. Ultimamente il termine si sta affrancando ed è iniziato a diventare uno slogan da utilizzare anche per ministri o candidati premier. Questo accade in Italia ma  non solo, addirittura c’è chi pensa  di realizzare una speciale versione di X Factor – “X Factor for Tech” dove invece che talenti musicali ci siano giovani startuppers a contendersi fama e soldi. Sono nati alcuni termini come startuppers seriali, startup market, e così via. Ultimamente anche le grandi aziende hanno fiutato l’opportunità e hanno deciso di finanziare eventi in questo mondo, la prima è stata Telecom con Working Capital, a seguire Microsoft, Enel, etc… forse si sono accorti che è scattata l’ora dello startup marketing?

Vedo cose positive e cose negative e davvero non so quale possa essere la cosa giusta da fare, per far crescere questo movimento se cavalcare l’onda o magari abbassare i toni e puntare i riflettori solo su chi davvero ha avuto successo.

Ho chiesto aiuto ad alcuni amici che sono molto più esperti di me per provare a capirne qualcosa in più: Fabio Lalli, Presidente di Indigeni Digitali, Marco Marinucci e Alberto Onetti , Fondatori di _Mind The Bridge e Paolo Iabichino, Executive Creative Director di OgilvyOne e OgilvyAction Italia.

A loro ho posto queste domande:

Quanto le Startup sono una moda e quanto una realtà?

Fabio Lalli: penso che il termine startup in questo momento sia abbondantemente abusato E’ pur vero che il mercato è sempre trainato e stimolato da mode e quindi non saprei se sia un bene o un male. Quello che vedo in questo momento è una forte euforia che sta spingendo molti ragazzi a lanciarsi in un percorso imprenditoriale in alternativa alla ricerca del posto fisso. Da una parte c’è un vantaggio e riguarda lo stimolo e le nuove opportunità per una generazione che necessariamente ha bisogno di una nuova modalità di lavoro, dall’altra, il contro, è la creazione di tanti piccoli kamikaze che si sentono imprenditori solo per aver fatto due righe di codice o aver in mente la prossima Facebook.

Paolo Iabichino: Farei una distinzione: un discorso è farci prendere dall’euforia come spesso noi provincialissimi italiani facciamo facendoci affascinare dagli idiomi e dal fatto che la parola startup suona bene ed ha a che fare con il futuro, con la tecnologia e con l’innovazione. Sono tutti temi che ci stanno a cuore, molto affascinanti e seduttivi e quindi sono d’accordo con te, è una moda e il tema può essere facilmente strumentalizzato in chiave di marketing. Improvvisamente le aziende diventano tutti dei business angels tutte alla rincorsa dell’ultima idea etc. c’è pertanto un pericolosissimo fenomeno hype.

Tuttavia in un momento dove mancano realmente le opportunità e dove realmente manca la possibilità di confrontarsi con dei mentori e di avere delle guide in qualsiasi campo il fatto che ci sia qualcuno che decide di fare impresa in autonomia contando solo sulla bontà della propria idea è un bellissimo segnale. Vuol dire che nonostante tutto c’è qualcuno che ha voglia di mettersi o rimettersi  in gioco. Quand’è che l’acqua s’intorbidisce? Quando il messaggio che arriva è quello della fascinazione della Silicon Valley;  soldi facili e applicazioni create in 24 ore durante una maratona che fa tanto showbiz. Laddove vanno in onda questo genere di meccanismi io m’insospettisco.

Quello che non mi piace è la strumentalizzazione ai fini di marketing che è fatta ed una lettura un po’ superficiale del fenomeno. Per me una startup è anche il caso di un art director di 29 anni che si è rotto della multinazionale in cui lavora e apre una libreria a Trastevere od un caffè sui Navigli. Anche queste sono startup, anche se non hanno nulla di tecnologico, c’è qualcuno che ha avuto un’idea ed ha deciso di avviare un’impresa sfidando la sorte. Per essere una startup non c’è bisogno per forza di algoritmi o piattaforme tecnologiche in questo momento chi può ed ha un’idea e la mette in circolazione è solo da ringraziare, è salutare per l’intero Sistema Paese e deve essere incoraggiato.

Mi sembra che si sia un grosso hype ma numeri certi pochi, si parla spesso d’impatto potenziale ma oggi ?

Marco Marinucci: L’ecosistema delle startups, per quanto sia difficile misurarlo, è di certo in crescita, sia sul fronte della quantità sia della qualità. Come abbiamo annunciato all’inizio del Venture Camp, limitandoci al sottoinsieme dei 7 progetti scelti come vincitori del Venture Camp 2011 (IlikeTV, Vivocha, D-Orbit, Timbuktu, StereoMood, Vinswer, NextStyler). In meno di 10 mesi: in aggregato, $6.4M ricevuti di funding, una valutazione di oltre $32M. Ovvero 824% in più’ di valore di mercato in meno di un anno. Per non parlare del 156% di crescita di posti di lavoro creati da queste startup. Pochi, certo, in valore assoluto. Tuttavia creano a loro volta una cultura di startupper che diventa virale e fa crescere le opportunità’ in progressione biometrica.

Fabio Lalli: Questo credo sia normale. L’hype è generato dall’euforia e soprattutto da un’esigenza economica. La realtà è che non esistono cambiamenti sociali ed economici che fanno uno switch da 0 a 100 senza tutto il percorso intermedio. Per arrivare ad avere numeri interessanti in termini di realtà che fanno risultato, è necessario avere numeri straordinari in termini di produzione, avvio e morte. Penso sia normale, è sempre successo così, non credo che di aziende tessili o industriali ne siano nate solo quelle che poi sono emerse. Per 1000 che ne nascono, uno decolla.

Come presidente di ID mi dai numeri reali relativi l’Italia? Quante Startup? In che settori?Che fatturato?

Fabio Lalli beh questa domanda è difficile. Per quanto ci stiamo proponendo come osservatorio sulle startup da qualche giorno e stiamo iniziando una serie di studi (come estensione della mappa che abbiamo già realizzato che stiamo sviluppando ulteriormente) ti dico che numeri “ufficiali” non ne ho. Quello che posso dirti è che ora, trovato per lo meno un perimetro comune di definizione di startup, si può procedere con un’analisi più puntuale. Sul discorso fatturato… è ancora più difficile.

Si moltiplicano gli eventi e le competitions relative a questi settori, non c’è un rischio X Factor o Amici dove si vendono sogni e si illudono molti ragazzi? Siamo sicuri che qualcuno non ci stia speculando?

Alberto Onetti: Il fenomeno è di certo diventato una moda e come tale si presta a generalizzazioni che possono in alcuni casi, essere fuorvianti. Il fatto che se ne parli crediamo possa aiutare a farlo crescere e diffondere. Ovviamente diventa sempre più importante fare informazione obiettiva e non auto celebrativa. E’ quanto noi facciamo da anni per esempio con la nostra MTB Survey (link per il download http://venturecamp.mindthebridge.org/files/2012/10/SURVEY_MTB_2012_DEF.pdf). Da questi dati è evidente che startupper non ci s’improvvisa, ma sono necessaria istruzione ed esperienza.

Fabio Lalli: in tutto c’è qualcuno che specula, anche tra fantomatici Angels, Investitori e Incubatori. E’ normale: se c’è una domanda, c’è qualcuno che si propone con servizi per fare business. Questo è il mercato! Sul discorso eventi ne abbiamo parlato spesso anche in rete: non esiste il troppo o il poco. Ogni evento, per quanto marchetta, può dare allo startupper un beneficio fatto di contatti, relazioni, visibilità, accelerazione economica seppur minima o anche, non da sottovalutare, consapevolezza e stimolo a confrontarsi di più. Sta allo startupper capire quando, come, dove e quanto partecipare in base al suo progetto, all’esigenza e al mercato in cui si deve inserire. 

Paolo Iabichino: Ti racconto un aneddoto qualche mese fa ho registrato un dominio Stortup.it, l’idea era di raccontare le storie delle decine, centinaia di startup che non hanno funzionato e soprattutto il perché non hanno funzionato. Raccontare i fallimenti da una prospettiva lucida (che inevitabilmente sono molti di più dei successi) può insegnare molto. In Italia abbiamo il tabù del fallimento e ciò è proprio contrario alla filosofia delle startup ovvero provare a realizzare la tua idea e provarci in ogni caso. Può andare bene o male ma se va male non devi essere messo alla gogna e invece in Italia succede questo. Il format dei talent show serve, però, forse a sdrammatizzare; spettacolarizzando, infatti, mitigo l’effetto fallimento addolcendolo; perché tutto sommato non abbiamo bisogno più di un business plan ma solo di 3 minuti di elevator pitch su un palcoscenico.

Il mondo del lavoro sta cambiando causa anche la crisi perdurante, la soluzione è l’auto imprenditorialità? Se sì come si cambia la storia e la cultura di un Paese come l’Italia dove il lavoro e’ stato sempre sinonimo di posto fisso?

Alberto Onetti: Il posto fisso fa parte di un mondo che non esiste più. Bisogna educare i giovani a essere imprenditori di se stessi. Il che non significa che tutti debbano fare partire una startup ma che debbano cogliere le opportunità che gli sono offerte dal mondo del lavoro con uno spirito imprenditoriale… Il lavoro viene sempre più di rado offerto, bisogna trovarselo e  convincere il potenziale datore di lavoro del valore che si può produrre.

Fabio Lalli: Questa euforia sta cambiando la mentalità e l’approccio, e sta portando un cambiamento importante nella cultura del lavoro. Questo cambiamento è ancora incompleto e privo di molte strutture sia culturali sia organizzative. Culturali parlo di formazione e cultura imprenditoriale, e strutturale intendo la formazione e lo sviluppo di tutti quegli stakeholder necessari ad un ecosistema imprenditoriale (VC, incubatori, università, reti di imprese, …) come scritto anche in The Rain Forest.

Paolo Iabichino:Bisogna riflettere sul valore delle parole, nel senso che quando un ministro dice che forse siamo un po’ choosy, lasciando correre la superficialità dell’affermazione, forse è una verità con cui dobbiamo fare i conti ovvero cambiare drammaticamente la prospettiva rispetto ad un lavoro che siamo stati abituati a concepire in questo paese in un modo che purtroppo è diventato anacronistico. Come cambiare? Secondo me poiché è un fattore endogeno culturale che ci appartiene, dobbiamo educare le nuove generazioni: questo è un discorso che deve entrare nelle scuole, nelle università, nelle accademie. Dobbiamo aiutare chi deve entrare nel mondo del lavoro ad orientare le proprie professionalità in una logica più imprenditoriale che aziendalista, meno protettiva. Dovremmo cominciare già nelle scuole un lavoro d’inserimento o di “startup” con workshop progettuali in cui le persone si cimentano con quello che sanno fare e prendono le misure delle loro capacità di lavoro in autonomia, non necessariamente a livello imprenditoriale. Ed anche addestrare al turnover. I nostri ragazzi quando entrano a scuola si siedono in un banco e rimangono lì fino all’ultimo giorno di scuola. Le scuole devono diventare delle palestre di cambiamento La laurea non è più una condizione di privilegio non dà più nessuna garanzia, bisogna ripensare il nostro modo di studiare e formarci.

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