“ la dimensione generalmente locale o regionale delle aziende italiane non le aiuta a cavalcare l’onda dell’innovazione, non tanto dal punto di vista tecnologico, quanto da quello metodologico”
I dati mostrano che il numero di manager italiani all’estero è in costante aumento, negli headquarter delle multinazionali sono sempre più numerosi. Agli executive che battono bandiera tricolore sono affidate importani responsabilità anche nel settore IT, ne abbiamo parlato con Bernardo Nicoletti e Giancarlo Miglio:
Quale é la ragione per cui lavora all’estero?
BN – Lavoro all’estero perché ho trovato opportunità interessanti e abbastanza sfidanti da piacermi. In realtà, é un po’ come l’uovo e la gallina. Ero interessato a lavorare all’estero e perciò ho cercato e trovato più facilmente all’estero. La domanda quindi diviene perché ero interessato a lavorare all’estero? La motivazione é che l’estero mi ha permesso di lavorare su base globale, piuttosto che nazionale.
GM – Ho sempre viaggiato molto nelle varie esperienze professionali avute, ma dire che lo facevo con l’obiettivo di avere un’esperienza continuativa di lavoro all’estero non sarebbe verità. Semplicemente e’ accaduto che la responsabilità che avevo raggiunto fosse incompatibile con la distanza dall’HeadQuarter e quest’ultimo si trovava all’estero. Trasferirsi non e’ stato un trauma dal punto di vista professionale in quanto già abituato a lavorare su chiave globale, nell’ambito di multinazionali, anche quando ero in Italia.
Quali sono le differenze tra il lavoro di un CIO in Italia ed all’estero?
BN – Il lavoro é simile dal punto di vista tecnologico: pianificazione, progetti, operazioni e controllo mente dal punto di vista culturale é sostanzialmente differente. Avendo lavorato all’estero con delle multinazionali, la sfida é sempre stata quella di adattarsi ad un ambiente multi-culturale. Ciò comporta delle sfide notevoli, in quanto bisogna modulare la propria capacità gestionale a diverse culture nello stesso momento. Lavorando in maniera remota piuttosto che con i propri clienti o i propri collaboratori o i propri fornitori nell’ufficio a fianco, l’importanza della pianificazione, della comunicazione e del controllo sono superiori e richiedono abilità molto differenti. Il lavoro all’estero è basato molto sulle metodologie che aiutano notevolmente ad essere più efficaci, efficienti ed economici.
GM – I contenuti professionali sono fondamentalmente i medesimi, in realtà ciò che cambia e’ l’approccio al lavoro e i costumi lavorativi, molto diversi se confrontiamo un paese del Nord Europa con uno dell’America Latina. La cultura dei primi e’ basata soprattutto sulla pianificazione e il controllo, ossessivo a volte, della dimensione tempo. Nel secondo caso la pianificazione risulta più ostica, meno naturale, e, al contrario, c’e’ maggiore disponibilità nei confronti dell’azienda, anche quando ciò implica notevoli sforzi e sacrifici personali. Quindi, il problema e’ quello di adattarsi ad una cultura diversa, quella del paese dove si opera, cercando però di capitalizzare gli aspetti positivi delle culture lavorative degli altri paesi in cui l’azienda e’ presente, innescando un processo di cross-fertilization che approdi ad un efficace e virtuoso mix di comportamenti.
Rispetto all’Italia direi che la dimensione generalmente locale o regionale delle aziende italiane non le aiuta a cavalcare l’onda dell’innovazione, non tanto dal punto di vista tecnologico, quanto da quello metodologico.
Quali sono state le maggiori difficoltà che ha incontrato?
BN – Il problema è quello di adattarsi a culture differenti e non dare quindi per scontato che il proprio modello sia corretto. La parte meno piacevole consiste nel fatto che tutte le volte che mi spostavano da un paese all’altro dal punto di vista sociale era un disastro, bisognava ri-cominciare ogni volta da capo.
GM – Adattarsi a costumi di lavoro diversi, dagli orari fino al livello di precisione e accuratezza applicati nelle varie attività, o alle dinamiche dei meeting, più o meno negoziali, più o meno incisive nelle conclusioni, alle relazioni con clienti e fornitori che seguono riti diversi da quelli da cui si e’ abituati.
Dal punto di vista personale, organizzare una nuova sfera privata in un paese diverso, e superare i momenti di difficoltà, derivanti dalla lontananza da affetti e consuetudini, che inevitabilmente si presentano prima o poi.
Cosa porterebbe in Italia della sua attuale esperienza lavorativa, quali aspetti sono carenti in Italia?
BN – I punti che richiedono miglioramenti dell’Italia dal punto di vista della gestione dell’informatica sono i seguenti:
– In molti casi si continuano a cercare soluzioni casarecce. Il mondo in realtà si sta sempre più orientando verso la terziarizzazione: sviluppo con l’acquisto di pacchetti; processamento, con l’utilizzo di outsourcer, delle attività.
– In Italia, si da poca importanza alla GRC – Governance, Risk and Compliance. L’emergenza sembra rendere rilevante la presenza del CIO, mentre al contrario l’obiettivo dovrebbe essere quello di fare in modo che sia sempre meno essenziale tale figura nelle operazioni giornaliere, in quanto la “macchina” gira per conto proprio.
– In Italia, si continua a dare poca importante ai processi e si continua ad insistere su applicazioni mono-funzionali; é difficile trovare aziende che investano su metodologie come il Sei Sigma o il Lean. Il CIO viene visto ancora come un tecnologo, piuttosto che colui che ha il compito di migliorare i processi nell’organizzazione.
– All’estero, si cercano i fornitori laddove sono più a buon mercato; così l’utilizzo di aziende asiatiche é molto più diffuso che da noi. Ciò richiede risorse skillate in inglese che mancano in molti casi da noi.
– In Italia, l’associazionismo tra CIO é molto limitato. Certo i fornitori organizzano presentazioni, ma molto raramente i CIO si parlano tra di loro anche a causa di una distribuzione territoriale elevata ed una dimensione medio piccola delle organizzazioni.
GM – In Italia esiste la sindrome del “not invented here” che crea atteggiamenti di rigetto nei confronti di soluzioni tecnologiche o di politiche di sourcing, diverse da quelle a cui si e’ abituati. Ora si comincia a parlare di offshoring e nearshoring quando, anche in paesi del cosiddetto terzo mondo alcune pratiche di tale tipo sono state avviate già da una decina d’anni.
In secondo luogo, esiste una minore flessibilità nel ricambio delle risorse umane. Molti sono abituati o addirittura aspirano a “vivere” nello stesso ambito lavorativo per lunghi periodi; quindi qualsiasi cambio organizzativo, teso al miglioramento delle performance, risulta reso difficile da tali ostacoli. Inoltre, la gestione dell’emergenza non viene vista come un problema ma come un’occasione di gloria e di riconoscimento. L’ICT “invisibile” e’ un concetto semplicemente non applicato, proprio perché non viene neppure riconosciuto come valore.
Quale é l’immagine dell’informatica italiana all’estero?
BN – Non c’è un’immagine dell’informatica italiana all’estero; purtroppo la nostra immagine all’estero continua ad essere quella del mandolino e del “Sole mio”. La mia prima difficoltà all’estero é stata quella di convincere che un italiano potesse essere un CIO innovativo piuttosto che al limite un commerciale bravo nelle relazioni come nel tradizionale stereotipo dell’italiano.
Mentre in altri paesi vi sono state delle esperienze di sviluppo informatico di grande successo, nel caso dell’Italia, si continua a pensare che siamo dei “follower” piuttosto che dei “leader”.
GM – L’opinione che si ha e’ che il mondo dell’informatica italiano sia più “anziano” di quello estero. Tale problema generazionale non sarebbe grave se fosse compensato da una spiccata attitudine all’innovazione. In taluni settori ciò accade ma in altri ambiti la nostra “provincialità”, limita il confronto con l’esterno diminuendo la capacità critica, a volte anche l’umiltà’, di riconoscere quelle che sono “migliori pratiche” delle nostre e adottarle e diffonderle.
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Bernardo Nicoletti, Laureato in Ingegneria Elettronica presso il Politecnico di Torino e in Business Administration presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh. Ha lavorato in numerose aziende in settori e paesi differenti: Trasporti (Alitalia), Telematica (Sigma Plus), Servizi finanziari (AirPlus, GE Money, AIG UPC), Computer Reservations System (Galileo), GE Oil & Gas e GE International. Ha anche lavorato per il Ministero degli Affari Esteri in una serie di progetti in paesi in via di sviluppo.
Giancarlo Miglio, Laureato in Ingegneria Elettronica presso il Politecnico di Milano, ha iniziato la sua esperienza professionale in IBM, per poi passare al settore farmaceutico, Successivamente approdato nel settore siderurgico (Dalmine, poi Tenaris) e di servizi alle major petrolifere, e’ giunto a rivestire il ruolo di CIO, trasferendosi infine in Argentina dove risiedeva l’HQ. Recentemente rientrato in Italia, nel settore Energy, riveste l’incarico di Responsabile dell’ICT Demand & Delivery Mgmt. Corporate di Enel.
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